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E’ la notizia del giorno, un urlo a spezzare routine ed equilibri in una ordinaria domenica di campionato. La frattura tra il tecnico giallorosso Luciano Spalletti e chi dal marzo del 1993 – quando Vujadin Boskov lo fece esordire nei minuti finali della gara di Brescia – rappresenta la Roma in Italia e nel Mondo, Francesco Totti. Ventitré anni, una vita con una maglia come seconda pelle ed una fascia nel destino, indossata con orgoglio dal 1997; affrontando gioie – poche ma intense – e dolori – molti – sempre con due soli colori. Rinunciando all’Eden calcistico, il Real Madrid, perché in fondo, lui, non ha mai avuto molti dubbi: “A Roma ho sempre avuto tutto”. E chi può metterlo in dubbio, idolo, icona e propheta in patria in un regno infinito ai piedi dei sette colli. Il declino fisiologico di una bandiera alle soglie dei 40 anni è da mettere in preventivo, ma va accarezzato, toccato, con tutta la delicatezza del caso per un giocatore che con quella maglia, e solo quella, ha calcato il rettangolo verde in 749 occasioni e griffando il fantascientifico numero di 300 reti. Ammainare una bandiera, dicevamo, non è mai semplice ma, forse anche inconsciamente, la dirigenza guidata da James Pallotta una spallata, decisa, aprendo l’armadio per poi decisamente riporla l’ha fatto ingaggiando proprio il tecnico toscano. Le mura, nel mondo del calcio, hanno occhi ed orecchie sempre pronte a cogliere l’impercettibile, e che il primo addio di Spalletti alla Roma portasse inciso il parere dello spogliatoio capeggiato, come ovvio, da Totti e De Rossi, è sempre apparso più di un gossip da trafiletto.

Lo scontro. La beffa dell’ingresso in campo a pochi minuti dal termine della gara contro il Real Madrid, a gara conclusa, la goccia definitiva a sentenziare un vaso della sopportazione ormai non più contenibile, fino all’esplosione ai microfoni del Tg1. Uno sfogo che dalle parti di Trigoria non poteva che lesinare conseguenze, ma comunque all’insegna dell’educazione ed esprimendo una precisa richiesta: rispetto. Proprio per questo la reazione di Spalletti lascia comunque sorpresi, non potrebbe essere altrimenti. L’immagine di Totti che abbandona il centro sportivo Fulvio Bernardini tra lo stupore dei propri compagni, con annesso, inevitabile, turbinio mediatico, certifica quanto la gestione di certi fuoriclasse, giunti a un passo dai Campi Elisi di una carriera folgorante, rappresenti un rebus indistricabile, una patata bollente con cui scottarsi è un attimo. La memoria, per mera selettività, non può che riportare ad altre due, immense, bandiere del calcio italiano: Alessandro Del Piero e Paolo Maldini e i loro addii a cui, nonostante la facciata, non mancò un pizzico di veleno nella coda.

Il duello. Il duello a fil di spada tra Alessandro Del Piero ed il presidente Andrea Agnelli fu silente ma incisivo. Schermaglie sfociate in video dal capitano bianconero, un fuoriclasse che si era issato, altissimo, per poi cadere e rialzarsi, un po’ come la sua Juventus, crollata sotto i colpi di Calciopoli e ritornata, riaccompagnata dal suo condottiero, agli antichi fasti. Un’avventura lunga una vita: dal 1993 al 2012 vincendo tutto e da protagonista, da simbolo della juventinità nel mondo. I primi schricchiolii a destarsi nel febbraio del 2011. Un video nudo e crudo, in cui Del Piero dichiarava amore eterno ai propri colori con l’attestato più intenso e veritiero: la volontà di firmare in bianco. Un colpo di teatro che chiuse ogni discorso, fugò ogni dubbio su una volontà di mercanteggiare sulla permanenza in bianconero, ma colpevole, secondo alcuni, nel mettere la società con le spalle al muro fino al rinnovo annuale. Raffreddando ogni rapporto con la dirigenza. Guerra fredda fino alla contromossa decisiva, a margine della assemblea degli azionisti nell’ottobre dello stesso anno, quello, parola del patron juventino sarebbe stato: “L’ultimo anno in bianconero del capitano”. Uno smacco imponente, un boccone amarissimo per chi, a 38 anni, riteneva di poter dire ancora la sua, anche con un ruolo di secondo piano. L’addio commovente, la standig ovation da brividi dello Stadium, orgoglio che si unisce all’amarezza, quella di chi, comunque, è costretto ad emigrare. Esperienze di vita tra Australia e India, senza chiudere al calcio con i colori amati e vissuti in prima linea, da predestinato, da quando Boniperti lo portò alla corte dell’Avvocato per cinque miliardi di lire. Nulla è per sempre, e proprio la scorsa estate l’incontro in sede tra Del Piero e Agnelli, Corso Galileo Ferraris come novella Canossa, sancendo una pace non, più, armata. Con un occhio ad un futuro da programmare insieme dietro la scrivania.

L’onta. L’addio al calcio di Paolo Maldini e lo struggente giro di campo contro la Roma di un calciatore che per 25 anni ha incarnato la storia rossonera, il simbolo lussureggiante dell’epopea disegnata da Silvio Berlusconi. Essenza, classe, gloria da celebrarare con la più totale venerazione per quello che rappresenta il miglior difensore della storia del calcio italiano, indubbiamente il più vincente, una vita dedita al calcio e scandita da 902 presenze tutte in rossonero. Un saluto dovuto macchiato dalla contestazione, smentita dai diretti interessati, della curva. Un’onta che ha fatto il giro del mondo e fotografata nel senso di disgusto dello storico capitano. Una medaglia, l’ha sempre definita, per lui che in carriera in petto ne aveva appuntate molte, dai sette Scudetti alle cinque Supercoppe italiane, passando per le cinque Coppe Campioni, cinque Supercoppe europee e issandosi tre volte sul tetto del mondo con i colori rossoneri. “Una goccia in un oceano d’amore” la definì Ancelotti, non sempre però profuso da alcuni esponenti delle più alte sfere dirigenziali. Maldini, da quel maggio del 2009, non ha mai più rivestito alcun ruolo per la società che aveva onorato oltre ogni limite, e le recenti dichiarazioni indirizzate a Galliani: “Carente nella sfera calcistica”, sono ben più di un apostrofo a dimostrazione di quale sia il reale stato di cose nel rapporto tra lo storico numero 3 rossonero e, almeno una parte, della società.

Tre storie diverse, per le tre ultime, più grandi, bandiere che il calcio italiano abbia potuto regalare al mondo. Tutte legate ad un unico filo, salvo alcune eccezioni. La gestione delle icone in qualsiasi rapporto, alla lunga, con il logorio dei tempi diviene sempre più ardua e complessa per le società. In ogni aspetto, dal rapporto diretto a quello con tecnici o tifosi. Qualunque sia il modo di porsi, l’errore è sempre dietro l’angolo. Nessuna colpa, o particolari invettive, solo la realtà dei fatti che si palesa, spietata, quando una bandiera tanto amata non riesce, non può, più sventolare orgogliosa.

Edoardo Brancaccio

 

 

Articolo modificato 21 Feb 2016 - 20:25

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Scritto da
redazione