Tre stagioni tra alti e bassi. Titoli, piazzamenti prestigiosi, e quel continuo alternarsi ad amarezze e sconfitte brucianti. La storia azzurra è così, da sempre: dà, offre, concede ma è altrettanto capace di togliere, spietata. Campagne europee con cui gonfiare il petto, ergersi orgogliosi ma allo stesso tempo capaci di schiantare al suolo sogni e ambizioni. Tre anni intensi, in cui il progetto targato Napoli è cresciuto esponenzialmente, certezza nel panorama italiano, con due titoli, e costante presenza nella tenzone europea. Unica squadra del belpaese – ulteriore nota al merito – in Europa negli ultimi sette anni, rendimento che è valso la diciassettesima posizione nel ranking e pass per la seconda fascia nei gironi di Champions. Non solo gioie però, dicevamo, per la vittoria – con coda amara – di Roma c’è stata Kiev, per la magica serata di Doha i fantasmi del 31 maggio dell’anno scorso al San Paolo contro la Lazio. Così come quest’anno, con le conslusioni infide di Zaza e Pina che gridano vendetta, sentenza inconfutabile, un confine su una stagione che resta, comunque, da ricordare. C’è un fattore, però, che non ha mai vacillato nell’ondivago saliscendi di questi tre anni intensissimi: una macchina da guerra azzurra guidata da cinque alfieri sempre sul pezzo. L’incarnazione della giostra del goal in tinte partenopee: 104 goal nelle due stagioni targate Benitez, 106 – record assoluto della storia del Napoli – nell’annata appena conclusa, quella dei record, a cui è mancata solo un titolo per consegnarsi definitivamente al Nirvana più assoluto. Uno score da 314 reti in tre anni, con Higuain, Callejon, Hamsik, Mertens e Insigne a serrare le fila. In cinque hanno collezionato ben 222 goal e 148 assist, numeri pazzeschi per un reparto che è ormai da tempo il più esplosivo ed assortito della Serie A, tra i migliori dell calcio europeo, all’altezza di top club di primissima fascia.
Da galactico a leggenda. Estate 2013, le nubi terse del dopo Cavani che si diradano progressivamente. L’acquisto del secolo, quaranta milioni sull’unghia ed un blitz per regalare alla platea azzurra un nuovo signore dell’area di rigore. Gonzalo Higuain in azzurro dopo sette anni al Real Madrid, una vita alla Casa Blanca da galactico, il gotha del calcio, tempo di assurgere al trono alle pendici del Vesuvio. Centoventuno reti con i blancos, tre campionati, due Coppe di Spagna e una Supercoppa. A 26 anni scocca l’ora di regalarsi un presente – ed un futuro – da idolo assoluto, mito per un popolo intero, ci riuscirà. Diverso, molto, dal suo precedessore migrato verso gli opulenti lidi parigini. Centravanti fuori dagli schemi, a tratti un dieci aggiunto. La ricerca del goal naturale, ovvia, solo una delle sfumature offerte dal delantero di Brest. Tecnica sopraffina, visione di gioco eccellente, una danza continua il suo incedere in campo. Destro e sinistro disegnano calcio, un incanto. L’amore che scocca contro il Chievo per poi proseguire in una stagione che concluderà con la vittoria in Coppa Italia ed un terzo posto in campionato. Ventiquattro reti e dodici assist in quarantasei presenze e con lo spazio anche per quelle lacrime, troppo difficili da trattenere, per la rabbia dopo l’eliminazione dal girone di Champions con 12 punti. L’annata successiva, la scorsa, la più complessa. Ventinove reti e sette assist, cifre alle quale sarebbe difficile porre qualsiasi appunto, se la stagione non fosse stata quella degli incroci pericolosi, dei colpi sotto la cintura ai quali è difficile controbattere. La doppietta di Doha magia, gioia naturale a corredo di una prestazione superlativa. Classe, grinta, carattere. Tutto meraviglioso, ma certi ricordi possono persino sfumare se a fare il paio ci sono i 180′ con il Bilbao, l’ipnotico Boyko nella doppia sfida in semifinale di Europa League contro la Dnipro ed un incubo lungo undici metri dal dischetto. Tanti errori a minarne statistiche e soprattutto, autostima. Il più doloroso contro la Lazio, mandando in fumo una doppietta da trascinatore e non solo, l’intera stagione. Napoli quinto, ancora fuori dalla Champions ed il futuro che diventa un rebus, per il progetto azzurro e per l’argentino.
Poi l’incontro, di quelli che sconvolgono e spostano gli equilibri. Higuain e Sarri, una coppia destinata a scrivere tante pagine della storia del club in un tempo relativamente breve. Meno di dodici mesi da quell’iincrocio di sguardi, era fine luglio a Dimaro, per cambiare tutto. Lavoro certosino sulla testa e sul fisico, stimoli e posizione in campo. Meno ispiratore, saranno 3 i passaggi vincenti in stagione, semplicemente centro nevralgico di ogni proiezione azzurra. Higuain diviene mostruoso, partita dopo partita, un cannibale, mai nessuno come lui in Serie A. Trentotto reti stagionali per quarantadue presenze, trentasei in Serie A, demolito il record di Nordahl che resisteva dal 1950. Terminale alla dinamite di un progetto tattico a misura d’attaccante, e che attaccante, quello che: “Se non vince il pallone d’oro è una testa di…”, parola del tecnico tosco-partenopeo. Fiducia ripagata oltre ogni misura, incarnazione di un’annata che doveva essere di ricostruzione ed ha raccontato una cavalcata frenetica, al netto di qualche incidente di percorso. Un’immagine, la più limpida, la rovesciata fantascientifica che ha sancito lo step definitivo, il passaggio dal terreno al mito, l’ultimo tassello della tripletta al Frosinone. E senza l’ira che dalla bocca dello stomaco è salita su, annebbiando la mente, esplodendo nella protesta di Udine, anche la Scarpa d’Oro sarebbe in bacheca. Ora il futuro, da vagliare in ogni sfaccettatura, perché rinunciare a tutto questo potrebbe essere molto più arduo di quanto le ragioni di mercato hanno da raccontare.
Le due vite del capitano. Il triennio della fascia, sentiero di un percorso che già vantava 262 presenze e 70 reti con l’azzurro cucito addosso. L’arrivo di Benitez e quel paragone, da sempre ingombrante, con il totem Gerrard che assume tratti sempre più marcati. Naturale con l’approdo alle pendici del Vesuvio del tecnico che consacrò il numero 8 di Anfield sul tetto d’Europa. Protagonista di un’impresa unica nella storia nel catino di Istanbul. Le responsabilità che aumentano, l’ultimo dei tre tenori a non aver abbandonato la scena, scelta di vita inflessibile alle tentazioni, immancabili per un talento come il numero 17 di Banska Bystrika. Luci e ombre, nelle due stagioni dai ritmi iberici, per l’intero gruppo ma soprattuto per lo slovacco, capitano dopo il progressivo accantonamento, con cessione nel gennaio 2014 al Sassuolo, di Paolo Cannavaro. Da vice capitano a simbolo, un netto cambio di prospettive, non solo nello spogliatoio ma anche in campo, con il modello tattico di Benitez che lo contemplava esclusivamente da dieci, dietro la punta, spesso – come ovvio – spalle alla porta. L’approccio è deflagrante, atomico, quattro goal in due gare con Bologna e Chievo, alla tredicesima è già a sei marcature in campionato, ottime le uscite in Champions, l’apoteosi per un centrocampista inventato lì, poco più di dieci metri in avanti rispetto alla sua collocazione naturale. Poi un infortunio, il primo – grave – in carriera, oltre un mese d’assenza e quel fastidio, lancinante, al piede che ogni tanto ritorna. Concluderà l’annata con una maggiore predilezione per l’assistenza ai compagni, chiudendo un’annata soddisfacente, condita da terzo posto e Coppa Italia – il primo titolo issato alto al cielo da capitano – con uno score di 7 reti e 9 assist in 41 presenze.
Nei numeri, ma solo in quelli, la migliore arrivò l’anno dopo. La stagione dei dubbi e dei rimorsi. Una certezza, Marek, 13 reti e 16 assist in tutte le competizioni. Serate da incorniciare come quella alla Volkswagen Arena di Wolfsburg. Ma nonostante questo, nonostante tutto, c’era il rapporto con il tecnico. Logorato da una fiducia che sentiva mancare, allenamento dopo allenamento, gara dopo gara, un po’ come quel cambio al 78′ nell’infinita finale di Supercoppa contro la Juventus. Ad alzare il trofeo, insieme al patron Aurelio De Laurentiis, sarà lui. Ma vedersi tirar fuori dalla contesa con un supplementare alle porte non è di certo una passeggiata per un capitano pronto a gettare tutto, e anche di più, in campo. Un leit motiv lungo 54 presenze e 3523′ giocati, spesso primo cambio, con il neo acquisto Gabbiadini – visto come suo omologo – a scalpitare. Un ritornello fino alla separazione, azzurri sconfitti in semifinale di Europa League, fuori dalla Champions, Benitez ai saluti. Uno spiraglio di luce, del resto Marek, l’estate scorsa, non le mandò a dire: “Benitez? L’addio l’ho preso con professionalità. Ora arriverà qualcosa di nuovo, spero di giocare di più. Rapporto con Benitez? E che volete che dica… giudicate voi. Se fosse rimasto saresti andato via? Non posso dirlo“. Un sospiro di sollievo quel volo direzione Madrid, una benedizione l’arrivo di Maurizio Sarri. Marek al centro del villaggio, il ritorno alle origini, da mezzala, ma con responsabilità primarie in fase di impostazione. Se c’è da offendere, ripartire, cercare il varco giusto, scocca l’ora dello slovacco: 8 goal e 11 assist in 46 presenze. L’urlo, il più sentito, nella serata della Champions, spunto rapace – come ai vecchi tempi – partita sbloccata e rete numero 81 in Serie A con la maglia del Napoli, come Diego Armando Maradona. Valore pratico e simbolico all’unisono in quella zampata di destro. Ridurre ai dati realizzativi l’annata dello slovacco sarebbe comunque una reductio ingenerosa per il fulcro del gioco disegnato dal tecnico ex Empoli. Basti pensare ai 2,5 passaggi chiave a partita di media, primo in Serie A. Lontani i fantasmi spalle alla porta, contratto in un ruolo non suo, nuova linfa per un nuovo Hamsik, capitano e simbolo di un gruppo chiamato a non fermarsi. Non adesso.
Grimaldello d’eccezione. Più di un gol ogni 153 minuti, più degli 11 di quest’anno, più dei sette assist e delle giocate infinite. Più di tutto, ma anche tutto di più: eccola, la stagione di Dries Mertens. Partito bene, però quasi retrocesso. Finito lì, tra le retrovie. Chissà quanto ingiustamente con questo super Insigne. E poi? Pian piano a correre, a lottare, a divertirsi come solo lui sa fare. Serviva uno scatto: mentale innanzitutto. È arrivato nel momento più importante, marchiando a fuoco una sfortunata Europa League e diventando sempre di più il fidato dodicesimo. Con Sarri non è stato idillio come con Benitez, ma non per questo s’è arreso. Né al campo, né alle sirene del mercato. Pazientemente, ha ricostruito. E allora è ripartito: dalle giocate, dai colpi, da quel destro fatato che potrebbe fare la differenza in mezza Serie A. Ora il suo bottino parla chiaro: 22 reti in A, 22 assist. E forse, unica pecca, ben 15 ammonizioni… Sarà quel che sarà, a giugno il suo nome è pronto a dribblare prime pagine e homepage: perché il folletto vorrà più spazio, senza dubbi. Però con un passato così pieno di gol e di emozioni, chissà che il fattore cuore non possa incidere più di tutti. Per intenderci: per quanto quest’anno abbia giocato quasi la metà rispetto ai numeri dell’anno scorso (1600′ con Sarri, 3100′ circa con l’ultimo Benitez), il suo score è sensibilmente migliorato. Anzi: la manovra offensiva, quando il belga finisce per destreggiarsi tra le linee, passa quasi esclusivamente dalla sua inventiva. Un bel salto di qualità, ecco quello che ci voleva. Che non vuol dire necessariamente prendersi la squadra sulle spalle, ma esserci, sempre e comunque. Anzi: quand’era disponibile, è sempre stato della partita (unica eccezione con la Samp ad inizio anno). Segno che Mertens era ed è parte fondamentale di un gruppo indiscutibilmente creato per vincere. 13 reti e 12 assist il primo anno, 10 gol e 12 passaggi vincenti nel Benitez-bis. Insomma: i numeri restano quelli. Quasi standardizzati, di sicuro mai scontati. Volente o nolente, il folletto belga dà il suo apporto deciso e decisivo, è pragmaticamente il resto a cambiare. Come la sua collocazione tattica: sempre ala, ma meno libero di svariare; sempre con licenza di affondare, non per questo senza obblighi prettamente difensivi. Il cambiamento è parte integrante della vittoria: col rovesciamento dei triangoli, Sarri ha chiesto doppio lavoro ai suoi esterni d’attacco. Dries? Un po’ ha faticato, ma solo perché gli è sembrato un meccanismo tutt’altro che familiare. O almeno, non così familiare come quando lo spagnolo gli chiedeva di andare tra le linee, di accentrarsi, di tentare la giocata. Di segnare, tanto. E di far segnare, ancor di più.
L’intoccabile. “L’ho voluto fortemente, può fare 20 gol”. Un’investitura? Forse anche di più. In molti sorrisero alle parole di Rafa Benitez, del resto in carriera José Callejon non era mai andato oltre le 13 reti in stagione con il Real Madrid. Ottimi numeri, se non fosse per il garbage time, le reti a margine delle goleade usuali per il club di Madrid. Avrà la personalità per imporsi in azzurro? Al quesito dei molti, troppi, scettici non mancò d’arrivare una risposta sonora e implacbile, a brevissimo giro di posta. Un’ira di Dio sulla fascia destra, nessun incrocio a piedi invertiti, tutto destro ma con quella predilezione innata per lo spunto tra le linee, comprendendo prima di ogni avversario le intenzioni dei compagni. Qualità unica, figlia di un’intelligenza tattica sublime, che abbinata alle doti fisiche dell’ala di Motril ne ha fatto un elemento imprescindibile, in entrambe le fasi di gioco. Mai effettivamente in discussione nei disegni del tecnico spagnolo, privarsi di Calleti eresia, efferato delitto. Venti reti e undici assist in cinquantadue presenze il primo anno, dodici reti e 7 assist in cinquantanove presenze il secondo. I goal a Marsiglia, Arsenal e Wolsfurg. I colpi inferti alla Juventus e alla Roma, tutto agli atti. Con lo spagnolo sempre chiamato a lasciare il segno. Che sia vittoria, sconfitta, Italia o Europa, quell’arare la fascia con fare incessante è una certezza, una costante nelle formazioni sempre criptiche dell’allenatore madrileno. L’unico neo, l’appanamento sotto rete a cavallo dell’ultima stagione di Benitez a Napoli, capocannoniere a novembre, 9 reti in dieci gare in A, riuscirà a ripetersi solo altre 4 volte tra campionato ed Europa League nel prosieguo dell’annata.
Via Benitez, via Bigon, cambia tutto, ma lui, lui no. Estate 2015, arriva Sarri ed è feeling immediato. Seconda punta o esterno largo, nei disegni del tecnico ex Empoli lo spagnolo è un giocatore indispensabile, essenziale nella sua unicità. Intoccabile, come fare a meno di un atleta che garantisce tanto equilibrio ed intelligenza offensiva? Non si può e così sarà. Da esterno largo a destra nel 4-3-3 post Brugge l’esaltazione dell’efficacia del prodotto della cantera dei blancos. In 47 presenze concluderà la stagione con 13 reti e 13 assist a referto. Ma l’apporto negli ultimi venti metri resta come orpello, quid in più a chiarire le sfumature. La sostanza è tutta lì, in quella catena di destra costruita gara dopo gara con i fedelissimi Hysaj e Allan, un muro infrangibile le cui fondamenta non hanno mai potuto fare a meno degli ossessivi ripiegamenti, da terzino consumato, del numero 7 partenopeo. Stoico, dal primo al novantesimo, portatore d’acqua e prima voce in avanti a seconda dei casi, delle esigenze. Prima l’applicazione, le consegne a cui non si può declinare, poi la gloria individuale tuffandosi lì, nel profondo delle maglie avversarie. El intocable, più di Bob De Niro nei panni di Al Capone. Semplicemente Josè Callejon.
Propheta in patria dopo l’inferno. Stagione 2012/2013: l’Enfant Prodige torna a casa, con Mazzarri in panchina: trentasette presenze, sedici da titolare, ventuno da subentrante, e cinque reti alla prima stagione in Serie A, di cui una indimenticabile, al San Paolo, per la prima volta, il sedici settembre contro il Parma. Poi sette assist, il piatto forte della casa. A conclusione della prima stagione anche cinque presenze in Europa League e una in Coppa Italia. Il ciclo Mazzarri è finito, arriva Rafa Benitez: Lorenzo, prodotto del vivaio azzurro, l’unico tornato alla base, si prende il posto da titolare: è la stagione 2013-2014, con lui in campo, napoletano tra i napoletani, genio e sregolatezza, scugnizzo vero nelle sue scorribande sulla fascia, tra un tiro ed un rientro. Il 4-2-3-1 lo completa, come calciatore: non solo attacco ma anche rientro, tanto recupero. Al primo anno con Rafa brilla in Serie A: trentasei presenze, tre gol e ben dieci assist per un totale di 2394’. Si toglie qualche soddisfazione in Champions League, nel girone che il Napoli chiude terzo, a dodici punti: due reti, entrambe contro il Borussia Dortmund ma la prima, da punizione, al San Paolo, resterà una perla. Anche un assist per lui, contro l’Arsenal ma il Napoli esce dalla Champions e retrocede in Europa League: quattro presenze ed un gol, contro lo Swansea. En plein, poi, in Coppa Italia: tre goal, compresa la doppietta decisiva nella finale vinta contro la Fiorentina, nella tragica notte dell’incidente a Ciro Esposito.
La stagione successiva, quella 2014-2015, comincia male per l’uscita ai preliminari di Champions League, contro l’Athletic Bilbao. E prosegue peggio: gli screzi con il pubblico si acuiscono e poi l’inferno. E’ il nove novembre 2014 e il ginocchio fa crack, si rompe il legamento crociato anteriore, contro la Fiorentina al Franchi, quasi come “la viola” fosse nel destino, nel bene e nel male, di Lorenzo. Un lungo stop, poi il rientro, il gol e le lacrime, contro la Sampdoria: venti presenze in A, a fine campionato, e due soli gol e tre assist, cinque presenze in Europa League (con tre assist, n.d.r) ed una in Coppa Italia, un calvario infinito che sembrava non avere mai fine. Certi infortuni possono cambiarti la carriera e segnarla in maniera definitiva ma non se ti chiami Lorenzo Insigne e hai dalla tua non solo il talento ma anche una grandissima forza di volontà capace di farti ripartire, e meglio, da ogni situazione. Stagione 2015-2016 e l’incontro che ti cambia la vita: come per Higuain, Maurizio Sarri è la seconda svolta della carriera di Lorenzo che, questa volta per davvero, diventa Magnifico in tutti i sensi. Stagione da protagonista assoluto, gemello del gol assieme al Pipita. Lo score parla chiaro: quarantadue presenze, tredici reti, undici assist, per un totale di 2856’ tutti d’un fiato. Alea iacta est: un futuro sempre più azzurro, da bandiera, per volontà e scelta di cuore. In attesa di una chiamata per l’imminente Europeo, perché lasciare a casa un giocatore così, il talento maggiore del calcio italiano, sarebbe veramente un peccato troppo grande da poter essere perdonato.
Edoardo Brancaccio
Con la collaborazione di Cristiano Corbo e Gennaro Donnarumma