Era il minuto 88. Lo stesso che molto probabilmente l’anno scorso ci è costato Scudetto ed Europa League. Un calcio di punizione da far tremare le coronarie. Alto. Il Napoli torna in Champions con una vittoria, peraltro in trasferta. L’aveva mestamente abbandonata a dicembre di tre anni fa, quando quelle lacrime argentine ingannavano i nostri cuori. 12 punti non bastarono per evitare che suonasse la sveglia. I dettagli fecero la differenza. E accadrà ancora, basta riavvolgere il nastro della gara di Kiev. Mai lasciare nulla al caso. Questo è il segreto.
Tre punti pesantissimi nello stadio dove due anni fa si interruppe contro il Dnipro il viaggio dorato verso Varsavia. Non la migliore versione azzurra martedì sera, senza dubbio. Ma così i meriti raddoppiano, poiché fino a qualche mese fa le vittorie di un certo spessore arrivavano solo con prestazioni eccelse. In un girone così equilibrato, invece, i successi in trasferta saranno la chiave di volta. Ecco, in trasferta. Altro tabù asfissiante dell’era Sarri. Nella prima stagione, a parte il trionfo di San Siro e i modesti scalpi in Europa, si è sempre faticato a portare a casa l’intera posta in palio nei match decisivi lontano dalle mura amiche. Se ora ci si vuole allineare all’aria di rinnovamento che si respira da quest’estate, ben venga ogni tanto un’improvvisa doccia gelata.
Quattro doppiette in quattro partite ufficiali, con buona pace di chi si prodigava nell’estrema unzione della fase offensiva partenopea. A sorprendere, a parte le insolite inzuccate di testa, sono le reazioni che sta proponendo questo gruppo. Un gruppo che era solito sgretolarsi alla prima difficoltà, mostrando tanta fragilità psicologica. A Pescara e con il Milan le sbandate sono state stravolgenti, con due gol beccati in pochi minuti. Eppure i movimenti ondulatori non hanno provocato nessuna crepa. In Ucraina conferma con lode. Sappiamo bene cosa significa andare sotto su quei campi, quanto è dura risalire la china. Il Napoli ha oltrepassato ogni rosea aspettativa assestando un mortifero uno-due già prima del riposo. Avevamo un po’ dimenticato i ribaltoni così repentini. Certo, meglio non trasformare le salite in un percorso abitudinario. La fatica, fisica o mentale che sia, prima o poi presenta il conto.
L’assenza di psicodrammi e la consapevolezza nei propri mezzi è certamente segno di maturità. Lo step visibile di una crescita graduale e con altre tappe da affrontare. La prima in assoluto è la gestione del risultato, a maggior ragione se in bilico e con un uomo in più. Insomma un altro cruccio di quelli all’apparenza irrisolvibili. Questa squadra non è costruita per palleggiare e attendere lo scorrere dei minuti, allora perché snaturarsi? Affondare i colpi è l’unica strada per sentirsi più sicuri, inutile rischiare harakiri innanzitutto concettuali. Emozioni e paura da debutto, la pressione di un risultato importante che va “nascosto” pur di non essere smarrito. Sarri sa come stimolare la componente caratteriale, poi l’esperienza necessaria sarà formata sul campo. Ma il suo velo di insoddisfazione a fine gara, unito a quello degli stessi calciatori, è tremendamente salutare. I tanti esordienti, compreso il mister, avrebbero potuto stappare bottiglie di champagne ed esaltare tutto il proprio ego dopo questa prima vincente. Sono lì a rimuginare sulle sofferenze patite, sul cinismo mancato. Eccola un’altra tappa. Uscire dal provincialismo che, complice una storia avara di successi, spesso ancora ci attanaglia.
Capire i momenti, sfruttare le pause, seguire una traccia. Una traccia che sul prato verde si traduce in personalità. E quando si giunge a questo punto, il dito è tradizionalmente puntato su Marek Hamsik. Io ve lo infilo qui, nelle ultime righe. Perché sono stanco di vedere il capitano perennemente sul banco degli imputati. Basta con questa storia del trascinatore. Marekiaro è un attore che recita perfettamente il suo spartito, a tratti trasmette emozioni, ma non ha presenza scenica. Dopo 10 anni d’amore non possiamo ancora chiederci come sia possibile. Non salverà il mondo e siamo d’accordo. Ciò che si può pretendere è che non vada a schiantarsi puntualmente contro vecchi fantasmi, rannicchiandosi in un angolo prima di sparire. La fiammella Hamsik non deve mai spegnersi, perché solo con una scintilla diviene devastante. E invece è proprio l’emblema del suo Napoli. Pimpante, giocherellone, spensierato. Ma se c’è da prendersi delle responsabilità, improvvisamente va nel pallone e mostra inadeguatezza. Bambino nell’anima, costretto a passeggiare su uno stuolo di carboni ardenti. Corri, cresci. Nessuno è disposto ad aspettarti.
Ivan De Vita
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