Dodici anni, in fondo sembra ieri. Dodici anni. Dodici anni dall’onta, dall’orgoglio partenopeo che si piegava al cospetto di equilibri economici e istituzionali. Avrebbero graziato, addolcito piazze di uguale importanza preservandole dallo scotto del fallimento, ma non il Napoli, non Napoli, no.
Che estate, l’estate del 2004. Torrida, infame. Il calcio Napoli, l’orgoglio del pallone meridionale. La stella del Sud che, unica tra le altre, in quasi ottanta anni era riuscita ad issarsi tra le grandi, con il più grande di tutti a serrarne le fila per quasi un decennio, non esisteva più. Eclissi, non un semplice appannamento, quello si era già palesato da tempo. Neanche il simbolo, neanche il nome, non più Società Sportiva Calcio Napoli, ma Napoli Soccer. Ma lo sarà per poco.
Questione di orgoglio, ma in fondo di dettagli. L’importante, per un intero popolo, era ritrovare quella maglia, quell’azzurro in cui tuffarsi per novanta minuti. Quel colore in grado di far sognare ogni ceto sociale, ogni età, senza alcuna distinzione. Tutti insieme, tutti uniti, unicum in una città meravigliosa ma complessa, ammaliante ma difficile. Sentimento. Aggregazione. Religione, in una dicotomia tra sacro e profano che prescinde il lato sportivo. Il Napoli può, e restava il Napoli, nonostante tutto.
Nonostante la Serie C, l’imponderabile mutava in amara realtà. Ennesimo capitolo di una fede messa spesso a dura prova ma che alla lunga, diciamolo, ha saputo anche ripagare. La Serie C, settembre e la parentesi di mercato esclusiva, attingendo da società benevole e svincolati vogliosi di rilanciarsi nella grande piazza. Anche in terza serie. Ventura in panchina, ma sarà una meteora. Pierpaolo Marino a dirigere, costruire le fondamenta del Napoli che verrà. Il patron Aurelio De Laurentiis di sfondo, con qualche imperativo: ascoltare, scrutare, comprendere un mondo a lui del tutto nuovo. Prime fasi di un apprendistato che sarebbe durato un lustro.
Dodici anni da quel 26 settembre, prima domenica autunnale. Il campionato di Serie C già alla terza, non per gli azzurri pronti ad esordire in un San Paolo gremito, ricolmo di orgoglio – sempre – e passione mai sopita, pronta ad esplodere e deflagrare. I cinquantamila di Napoli-Cittadella, quante volte questo refrain è stato detto e ripetuto. E a ragione. Un “Non molleremo mai” infinito ad accompagnare le squadre in campo. Un brivido, immenso, lungo la schiena. Il Napoli esisteva ancora. Era lì, di nuovo pronto a battersi. E a soffrire.
Tutto, insomma, in quei novanta minuti. Per comprendere l’antifona di una categoria che con i colori azzurri sarebbe stata tutt’altro che benevola. Il blitz di Carteri ed il vantaggio degli euganei, poi uno spettacolo lungo quaranta minuti. Dominio assoluto, dittatura in tinte partenopee sul rettangolo di gioco. Le sgroppate di Toledo come polvere pirica, i goal di Ignoffo e Savino quasi in fotocopia. Poi il terzo sigillo, proprio dell’esterno di proprietà dell’Udinese, con il placet dell’incerto estremo difensore avversario. Tre a uno e squadre negli spogliatoi. Tutto agli archivi, primi tre punti in tasca, questo il pensiero che riecheggiava sugli spalti. Illusione. C’è da fare i conti con una stagione nata, per forza di cose, male. Ed una condizione di certo non smagliante, Napoli a poco a poco sulle gambe e questo, alla lunga, diviene dazio contro un avversario spinto dall’entusiasmo. E rodato, due gare in più e una preparazione estiva alle spalle. Uno-due veneto in venti minuti, Giacobbo e De Gasperi le ultime griffe di un 3-3 incastonato, comunque, nella storia partenopea. Delusione, certo, ma poco male. Applausi per tutti al triplice fischio e quel “Non molleremo mai” che ancora riecheggia nelle menti di chi c’era e mai potrà dimenticare.
Oltre il risultato, l’inizio di una nuova era. Il ventisei settembre del 2004 alle 15, un popolo intero infine uscì a riveder le stelle. Per poi ammirarle, sempre più, da vicino. Ora, dodici anni dopo, non resta che accarezzarle. Chissà…
Edoardo Brancaccio
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