Un tempo – nemmeno molto lontano – nel calcio si ammiravano le gesta di grandi attaccanti, vere e proprie icone e simboli in intere nazioni. Il calcio, però, pian piano sta cambiando e l’importanza che un tempo rivestivano i bomber ormai è svanita. A buttarla dentro, ad occupare il centro dell’attacco e ad indossare la maglia numero 9 ormai non è il rapace dell’area di rigore, che sembra quasi estinto. Impietosa è stata l’analisi odierna de l’Equipe, quotidiano francese sempre attento a dosare certi fenomeni calcistici. Il centravanti – come sostiene il giornale – è un ricordo lontano, e calciatori come Klose o come Ibrahimovic non ci sono più. Anche il Napoli, a modo suo, sta risentendo di questa nuova concezione del gioco del calcio, ed è incredibile pensare come in un batter d’occhio ci si trovi a dover convivere con lo stesso problema.
RAFFRONTO – L’analisi del quotidiano si è estesa sulle maggiori nazionali europee: la Germania, la Francia, la Spagna, l’Inghilterra, l’Olanda, il Belgio e l’Italia. Ebbene se ci si sofferma un attimo nessuna di questa ha il proprio leader in un attaccante. Tante stelle, tanti calciatori atleticamente e tecnicamente molto talentuosi, ma nessun bomber di razza. Il Napoli al momento è un po’ come una grande nazionale: l’attaccante centrale proprio non c’è. E si fa fatica al momento ad immaginare qualcuno che possa prendersi la squadra, diventarne l’icona ed ammainare la bandiera di questa categoria di calciatori al San Paolo. Tanti nomi sono stati accostati e qualcuno e gennaio arriverà; ma Pavoletti, Zaza o Zapata conquisteranno veramente la squadra?
CONTRADDIZIONI DEL CALCIO MODERNO – Un flashback di una decina di anni fa riporta alla luce gli attaccanti della serie A: Ronaldo, Shevchenko e Batistuta – per dirne qualcuno. Se proprio ora vogliamo trovare gli eredi nel nostro campionato dovremmo riferirci a giocatori come Higuain, Dzeko e magari anche Milik – se l’infortunio non l’avesse fermato. Ma nessuno di questi fa battere il cuore come quelli, nessuno rappresenta una squadra, una piazza o meglio ancora un’ideologia di gioco basata sulla finalizzazione, sull’area di rigore come luogo di battaglia ideale per vincere le partite. Ora si combatte sul piano atletico, si imposta da dietro, si apre la difesa ed aprire le difese avversarie è impresa ardua. Prima invece si ricorreva all’estro di questi magici talenti e spesso l’arma era vincente. Anche gli azzurri hanno un grande gioco con interpreti di ottimo livello, e di attaccanti nei tempi moderni al San Paolo se ne sono visti – Cavani e il Pipita su tutti – e con risultati grandiosi, spesso non solo in fase offensiva ma con recuperi a tutto campo. Ma ora cosa è rimasto? Il ricordo di tempi che sono stati mangiati in balia della modernità.
IL FUTURO – La crisi di identità è chiara. L’attaccante non è più quello di una volta. Lo scrive l’Equipe, ma lo recita il campo ogni singola partita. Vedere gli attaccanti interpretare il ruolo di centravanti, con gli occhi puntati verso la porta cercando di colpire il bersaglio se ne vedono pochi – sempre il giornale fa l’esempio di Lewandoski – ma non basta. Ora il punto di riferimento prende la palla, spesso anche nella propria metà campo, fa da sponda – cosa, per carità, sacrosanta per un attaccante – ma spesso si isola, si estranea o meglio si rende inutile, perché non segna. Mentre prima c’erano attaccanti che seppur non avevano palloni giocabili per tutta la partita né prendevano uno e tanto bastava per insaccarla. Per questo gli allenatori fanno sempre più affidamento su giocatori brevilinei o comunque bravi a partire palla al piede da dietro con buon dribbling, con buona pace del numero nove.
Il futuro sembra scritto, ma è meglio non abbandonarsi all’idea che in qualsiasi parte del mondo altri grandi interpreti del ruolo nasceranno, magari capaci di far sognare anche il San Paolo.
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