2016: l’anno del “9”

Un anno, il 2016, e che anno. Emozioni di ogni sorta in un turbine inarrestabile, che travolge, sconvolge, creando poi un nuovo ordine. Straordinario. L’artefice, manco a dirlo, Maurizio Sarri, artista della panchina, tra pregi e difetti, ovvio. Un maestro, nel bene e nel male, ma comunque in grado di modellare la sua idea alle contingenze. Sempre.

L’anno del nove, nel puro senso del termine ma anche nelle sue innumerevoli sfaccettature. Un anno scandito dalle giocate, dalle reti, dalle meravigliose invenzioni del centro di gravità azzurro nella trequarti avversaria. Gioie, sussulti, giocate da spellarsi le mani. Ma anche tradimenti, scoperte, consacrazioni. Tutto con un unico comune denominatore, il nueve, lì, a fare la differenza.

Da Higuain a Milik, fino a Dries Mertens. Interpretazioni diverse, spunti diametralmente opposti ma tutti legati da un fil rouge ineluttabile: la via del goal. Una macchina da reti, quella costruita , pezzo su pezzo, dal tecnico partenopeo. E a godere di tanta opulenza sempre, o quasi, il centravanti. Puro o falso, non fa nessuna differenza, gli addendi mutano, il risultato resta, devastante, meraviglioso.

Una corsa costante, implacabile, quella di Gonzalo Higuain, polverizzando record scolpiti nella pietra. Nordalh seppellito da un uragano con la maglia azzurra. Dalla festa con il Frosinone, il San Paolo ai suoi piedi, quella rovesciata fantascientifica, alla fuga nel silenzio. Qualche parola di commiato, solo successiva, ma la ferita resta aperta. Pulsa, vibra, può attenuarsi ma non è ancora rimarginata. Troppo difficile passare dal record dei 36 squilli in campionato, da quei cori festanti sotto la curva, al tradimento sportivo più feroce per la piazza partenopea. Uno smacco sul quale neanche 90 milioni di motivi hanno potuto gettare un colpo di spugna.

Un peso per chiunque, prenderne il posto, ma non per Arkadiusz Milik. Ambientamento? No, grazie. Così come per la maglia numero 9, gentilmente rifiutata. Meglio raddoppiare, il nuovo Gonzalo? No, Arek. Con la disinvoltura persino sorprendente di chi il calcio, quello vero, l’ha appreso in una palestra che ha sfornato senza soluzione di continuità fuoriclasse, a profusione. Pronti via, 7 reti in 9 presenze. Dal primo, sporco, da attaccante puro al Milan, una sequenza di reti vagliando ogni soluzione possibile. Un attaccante per ogni situazione, mobile e tecnico, ma forte di testa. L’uomo giusto al posto giusto e con una stagione da protagonista all’orizzonte. Poi l’imponderabile, la sfortuna a Varsavia che si accanisce, resta solo la forza, di spirito prima ancora che di fisico, per ripartire. Ritornare subito, più forti di prima.

Un vuoto, lì in avanti, il Napoli ancora orfano del suo puntero, con Gabbiadini quasi schiacciato da una morsa di responsabilità che si somma ad un modello tattico mai, realmente, cucito sulla sua pelle. La reazione di Crotone il finale anticipato, il principio di una nuova, deflagrante, esplosione lì in avanti: quella di Dries Mertens. Una consacrazione, pura, quella nella seconda metà del 2016, dallo sguardo in cagnesco a Sarri all’Adriatico un susseguirsi di prestazioni superbe, da antologia. La discontinuità, l’utilizzo par-time, solo un ricordo. A sinistra una freccia acuminata, al centro, trovata la posizione e le giuste misure, un grimaldello in grado di scorgere il varco e trovare la strada giusta. A ritmi funambolici.  Dal dribbling ubriacante con stoccata da biliardo del Da Luz. al pallonetto delizioso che ha lasciato sbigottiti pubblico, avversari e compagni – chiedere a Chiriches – contro il Torino, perle lucenti, preziose. Da attaccante 11 dei suoi 15 spunti stagionali, un passo che nelle ultime giornate – nove reti in cinque gare – ha assunto l’incedere del famelico uomo d’area di rigore.

Tutto tornato, come dicevamo, al proprio ordine, andando oltre. Aspettando il ritorno di Milik e con un Pavoletti in più nel motore, il 2017 promette di mantenere un leit motiv che è ormai abitudine, deliziosa. Una certezza, proprio come quel “9”.

Edoardo Brancaccio

 

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