Non è vero che non resta niente. Non può non restare niente. Non può non restare l’urlo affamato del San Paolo, non possono non restare gli occhi increduli dei bambini, lo sguardo sbigottito dei padri. I brividi feroci sulle schiene dei più anziani. Non può non restare l’amore: incondizionato e incondizionabile. Perché alla fine il campo potrà anche dire altro, ma una misera – e neanche un po’ insignificante – vittoria c’è stata: Napoli ora può considerarsi una grande squadra. E una grande città.
Palazzo Caracciolo sembrava il ritrovo improvvisato di innamorati ancora speranzosi. La ressa però si è composta d’ordine e d’attesa, poi di molta più disciplina di quanto si pensasse. Del resto, il Real passa due volte in trent’anni. E quando lo fa, in un modo o nell’altro, ha sempre qualche piccolo scotto da pagare, qualche conto mai saldato con la sorte. C’aveva creduto, Napoli. E con la città, la squadra aveva dimostrato di poter tener bada ai campioni di tutto. Campioni pure di ‘ciorta’: beffarda, infame, straziante nel finale. Perché mollare il colpo era l’unico passo falso da evitare. E invece…
E invece Morata segna. E lo fa dopo l’uno-due di Ramos, baciato senza preavviso dalla dea bendata, dopo una partenza in salita, il fiato sempre più corto, e il ‘miedo’ scenico che non può non pervadere ovunque i blancos. Ah, qualcosina del genere, in fondo, l’attendevano: mai uno stadio così gremito, mai uno stadio così unito, aveva fatto sospirare i galacticos. Sul piano del gioco e sul piano mentale. Se non è una vittoria questa…
Serve a poco, vero. O meglio: non serve proprio a nulla. Tuttavia, il domani da stasera fa meno paura: c’è la consapevolezza di essere grandi. E di esserlo in ogni sfaccettatura possibile: dall’organizzazione allo ‘smistamento’ di situazioni, la città è stata a tratti impeccabile. L’unico problema? Il percorso inverosimile che ha dovuto sorbirsi la tifoseria madrilena: per raggiungere lo stadio, situato a una decina di chilometri dal luogo d’incontro, gli spagnoli accorsi a Napoli hanno impiegato più di due ore. Ecco: un punto negativo in un mare di notizie totalmente positive. La prova del nove è stata superata. Quella del novantesimo? Pure. E senza dubbi. Perché tenere duro contro un mostro, per quanto si possa essere forti, belli, o anche tatticamente sublimi, resta impresa degna di un eroe delle favole. Sì, la scritta ‘fine’ è comparsa anche su quest’edizione della Champions League: ciò però non vuol dire che l’intero viaggio non sia stato meravigliosamente esaltante.
La storia del Napoli insegna che ad ogni passo falso corrisponde una ripresa più forte, cazzuta, orgogliosa. E che a ogni presa di coscienza, spesso corrisponde quel ritorno di consapevolezza che in campo fa la differenza. Se gli azzurri riuscissero a ripetere quei 60 minuti di stasera in ogni singola partita, probabilmente in campionato non ci sarebbero storie da raccontare, fantasmi da inseguire, Pipita da rimpiangere. Ci sarebbero un pallone e undici virtuosi intenti nel mostrare quanto alto più diventare il livello del gioco, quanto il saper fare sia più importante del farlo ad ogni costo. Utopia per giovani innamorati, come quei tifosi dilaniati dalle testate di Sergio Ramos, che qualche lacrima l’ha fatta spargere, che qualche pezzo di storia l’ha pure scritta.
Si è scontrato contro un muro quasi invalicabile, la squadra di Sarri. Eppure ha saputo come aggirarlo nel momento del bisogno: bisognava destare la città, animare i tifosi, lasciar scorrere adrenalina e qualche goccia di sano agonismo. Diventare grandi vuol dire sbagliare, eppure non c’è stato errore. C’è stato solo un sogno spezzato, una ferita infettata mentre provava da sola a risanarsi. C’è stato solo un amore che ha dato un’enorme e ulteriore prova di sé. No, non è vero che non resta niente. Non può non restare niente. Napoli lo sa. E se non l’ha ancora realizzato, lo farà presto.
Cristiano Corbo
Articolo modificato 8 Mar 2017 - 01:30