“Così non si cresce”. Ha tuonato così capitan Hamsik dopo l’assurda sofferenza degli ultimi minuti di Empoli. E sarà uno di quei “due o tre che hanno tirato giù madonne” negli spogliatoi del Castellani, osservato in silenzio da papà Sarri. O non sarà tra questi? Chiunque di noi, ascoltando le parole del mister in conferenza stampa, ha riflettuto su chi potessero essere i trascinatori del gruppo azzurro. Perché in campo, troppo spesso, se ne sente una maledetta necessità.
Reina, Albiol, Hamsik, Mertens. Questa la spina dorsale del Napoli. Qui, o nelle immediate vicinanze, è lecito attendersi la presenza di una leadership. E se Pepe lo è abbastanza chiaramente, trai i pali e sui social, gli altri purtroppo non sembrano averne le stimmate. Con difesa e centrocampo infarciti di giovani, esperienza e carisma sono l’ago della bilancia praticamente indispensabile. Raul e Marekiaro, simboli indiscussi di questa compagine, non hanno la personalità adatta per stringere la mano ai compagni nei momenti di difficoltà. E, anzi, spesso finiscono per naufragare con loro come accaduto domenica scorsa. Un cocktail di frenesia ed insicurezza che viene giù come una valanga travolgendo tutto quanto di buono era stato costruito fino ad allora.
Alla fine arriva Dries. Lui che era famoso fino alla passata stagione per subentrare nell’ultimo spezzone di gara e spaccarla letteralmente in due. Quest’anno è divenuto il nostro inatteso goleador, ma il suo sacrificio e la voglia che trasuda da tutti i suoi (pochi) centimetri è un esempio lodevole per chiunque gli ronzi intorno. Anche il folletto belga, però, si perde talvolta in alti e bassi comportamentali, annegando nell’onda dell’immaturità e della totale anarchia.
La gestione del match e dei suoi tanti passaggi è il tallone d’Achille del Napoli. Come e quando rifiatare senza perdere la bussola resta un mistero per chi non ha buoni maestri. O come reagire ad un episodio negativo evitando l’autolesionismo allo stato puro. Ed è inammissibile dover pretendere il piede sull’acceleratore per 90’ pur di allontanare pericolosi harakiri. Tre gol per una vittoria, in linea di massima, dovremmo farceli bastare.
Nelle squadre vincenti, costituite da società ed ambienti circostanti abituati a sollevare trofei, inculcare concetti come “fame” e “cattiveria agonistica” è una semplice spinta ad un’auto in discesa. All’ombra del Vesuvio, parliamoci chiaro, tutto questo non c’è. Anzi, è persino inutile rivangare le inadempienze strutturali dell’organigramma societario, le manie di protagonismo dell’Aurelio padre-padrone e la natura profondamente umorale della piazza partenopea. In un clima simile, la sterzata può giungere solo dall’aggiunta di campioni autentici ad una rosa già ricca di talento. Quelli che sostengono le mura maestre dopo una scossa di magnitudo Strootman all’85’ di Roma-Napoli. Partita dominata da far morire con furbizia invece di chiuderla come se fossimo stati barricati in un pallottoliere. Se non si è abituati a certi palcoscenici, o si è troppo acerbi per entrarci a spettacolo in corso, si finisce per soccombere. Almeno nel breve periodo. Se i progetti restano in prospettiva futura, beh, allora conviene piuttosto allenare le nostre coronarie. Per il resto non cambierà mai nulla.
C’è una strada più economica, però, ascoltando le dichiarazioni di Sarri. Sfruttare il proprio materiale umano con la cura maniacale dei dettagli. Processo indiscutibilmente lungo e complicato, al quale è inutile poi addossare pressioni. E, soprattutto, basato su un assioma di fondo: mantenere lo stesso parco giocatori. Invece i leader tecnici, la versione pragmatica di quelli tradizionali, finiscono sempre per abbandonarci. Cavani, Lavezzi, Higuain. Ora le storie intricate con Insigne e Mertens. Chi deve lavorare il doppio per ovviare ai propri limiti, non è certamente motivato dalla continua diaspora dei principali punti di riferimento. Allora deciditi Napoli, cosa vuoi fare? Vuoi essere uno di quei telefilm appassionanti, con una miriade di episodi ed un finale scontato o un capolavoro epocale che strapazza i botteghini? Non è una provocazione. È un assist a porta vuota.
Ivan De Vita
Riproduzione riservata