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C’è l’incredulità, per ora. Quella incapacità a razionalizzare le emozioni che è tipica di chi s’affeziona. Di chi ama e proprio non si rassegna. Di chi non si capacita di dover lasciar andare una persona così. Per ora, dunque, c’è l’incredulità. Poi subentreranno altre emozioni: l’angoscia, un po’ di dolore, forse anche il rancore. Che ne sarà, poi, dell’amore che c’è, o che quanto meno c’è stato? Che bruciava e che ora è una debole fiammella?

Quella tra Napoli e Marek Hamsik è una storia d’amore che va avanti da (quasi) undici lunghissimi anni. Con gli alti e bassi, quei momenti di crisi e quella gioia assaporata appieno. Poi il fiore della giovinezza s’è appassito, quell’amore così prepotente è andato scemando. Oggi, l’addio probabile di Marek Hamsik è di quelli che dividono. C’è chi proprio no, non se ne capacita: l’incredulità. C’è chi invece è già andato oltre e prova già rancore per il capitano. C’è anche chi prova a razionalizzarlo, parlando di cifre, d’età, di parametri che il cuore non concepisce.

È ovvio (o quasi) che l’addio di Hamsik faccia male. Lui che era – ed è – un simbolo, con quella cresta che s’è alzata nel corso degli anni, quel 17 sulle spalle (che a Napoli non è poi così benaugurante), quell’accento strano, da forestiero. Il Napoli e Hamsik s’erano incontrati come quegli adolescenti che provano per le primissime volte le farfalle nello stomaco. Uno era sbocciato nel Brescia, in Serie B. L’altra era una neopromossa dalla cadetteria con tante belle speranze.

Sono cresciuti insieme, resistendo alle tentazioni, anche facendosi del male, talvolta. Dopo undici anni qualcosa s’è gelato, s’è spenta una fiamma, entrambi – forse – hanno altre priorità. Hamsik in Cina, il Napoli che lo saluta: uno scenario che nessuno avrebbe immaginato. I tifosi se l’erano immaginato diverso, l’addio del capitano. Sotto la curva, con la mano sul cuore, magari fra qualche anno. Tra le lacrime.

Che, in fondo, ci saranno, ma saranno ben nascoste. Da una domanda, soprattutto: “Ma davvero vuoi andartene così?”

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Scritto da
Vittorio Perrone