Non è Superman. Non vola, non ha una forza disumana. Non è un supereroe dai poteri sovrannaturali, non è neppure uno per cui – in campo – vale la pena stropicciarsi gli occhi. Però Arek Milik il mestiere lo svolge con diligenza. È uno qualsiasi, come noi. Con i suoi tanti pregi e i suoi numerosi difetti. Uno di questi ultimi è il suo nome: non è Edinson Cavani, e agli occhi di qualcuno è un bel materiale per attaccarlo.
Però Milik aveva già dalla sua parte guizzi e numeri. Quelli di chi ha segnato 15 goal in Serie A, 7 da subentrato. E ancora: 5 goal quest’anno in 800 minuti. Non male. Che non fosse Cavani o Griezmann o tanto meno Ronaldo, beh – era cosa nota. Eppure qualcuno ci è andato giù pesante, troppo. Dopo la Roma, dopo Genova. Lui, gregario, lottatore, dopo due crociati lesionati è risalito arrampicandosi a mani nude. E nessuno intorno che gli abbia detto “bravo”. Centravanti di mestiere per caratteristiche, ma una testa da seconda punta. Pregi e difetti, perché la perfezione – anche nel calcio – è utopia. Della serie: “Non sono un bomber, ma sto imparando”.
Piano, con la calma di chi sa aspettare. Con la pazienza di chi ha visto per un attimo il mondo crollargli addosso e non ha nessuna fretta di riprendersi ciò che gli spetta. Perché la frenesia è spesso un male e la gloria è di chi – invece – sa attendere.
Con gli errori, tanti. Che in fondo sono utili maestri di vita: insegnano sempre qualcosa. Arek l’ha dovuto capire nella maniera più rude, con i due schiaffoni che la vita gli ha riservato. Ma lui sa rialzarsi. E anche dopo essere arrivato con l’eredità-macigno del dopo Higuain, dopo aver vissuto la rottura di due crociati e le critiche feroci per alcune prestazioni sottotono, s’è risollevato sulle sue certezze. Ieri la vita gli ha riservato un regalo, forse in pieno spirito natalizio. Un goal da centravanti di mestiere. Bello per esecuzione, per importanza e per il messaggio intrinseco: Arek c’è. E ogni tanto sa essere decisivo.
Vittorio Perrone