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“Non rimpiango tutto quello che mi hai dato, che son io che l’ho creato e potrei rifarlo ora. Anche se tutto il mio tempo con te non dimentico perché questo tempo dura ancora”. Se Maurizio Sarri un giorno dovesse spiegare ai tifosi napoletani il suo matrimonio con la Juventus, probabilmente userebbe le parole della canzone “Vedi cara” di Francesco Guccini. Eppure chissà.

Chissà che non si senta fuori luogo nel citare un cantautore che del suo ideale politico ha fatto il caposaldo della sua musica e della sua personalità senza mai rinnegarlo. Un ideale simile a quello che i tifosi del Napoli hanno voluto vedere in lui, un abito che l’allenatore stesso ha indossato di buon grado senza mai abbozzare un tentativo di volerselo scucire.

Perché l’amore tra Sarri e i napoletani va oltre il semplice rapporto di stima tra tifosi e allenatori, supera il piacere del bel gioco ma si identifica in una realtà di fatto: per Napoli, nella storia, dopo Maradona viene Sarri. Sarà che l’uomo “sporco” partito dal basso fino a puntare al famoso “palazzo” è lincarnazuone del perfetto supereroe napoletano. Anzi, perfetto proprio perché imperfetto, nelle sue uscite fuori dagli schemi, nelle sue espressioni di pancia, nella sua schiettezza così poco tollerata da chi è abituato a ben altra comunicazione, così amata da chi finalmente vede il manifestarsi di un uomo vero nel mondo del calcio.

Eppure l’uomo in tuta in mezzo a tante giacche e cravatte, l’uomo che non si fa scrupoli nel mostrare il dito medio a un gruppo di tifosi avversari (tifosi della Juve, e non è un dettaglio), l’uomo divenuto simbolo di una rivolta del proletariato, della riscossa degli ultimi, di una giustizia terrena che per una volta non rispondesse soltanto ai dettami del denaro, è stato risucchiato dal suo stesso personaggio in un vortice di incoerenza.

L’intervista a Vanity Fair è soltanto il primo colpo di pialla per l’adattamento di un personaggio ruvido a un ambiente liscio, lavorato, per bene, da salotto. Un ambiente fatto di giacca e cravatta come quello della Juventus. “Il mio abbigliamento in tuta? Se la società mi imponesse di andar vestito in altro modo, dovrei accettare”, che è un po’ come ammettere che è chi ti paga a decidere quale abito indossare e quale identità incarnare.

Paradossalmente passare dalla parte del “nemico” contro il quale si è combattuto per 3 anni – lo stesso nemico contro il quale la lotta per i napoletani, quelli veri e non da slogan, dura da sempre – non è neanche l’elemento più pesante di questa storia che finirà con Sarri che invece di combattere il palazzo ci metterà piede.

Il tradimento, se di questo si vuole parlare, l’allenatore toscano, il “comandante” come a qualcuno piace chiamarlo, lo ha fatto a sé stesso, al suo ideale, alla sua identità, a quel famoso abito che ora, finalmente, si sta togliendo delicatamente e con messaggi cifrati, uno stile ben lontano da quello che ha costituito parte del suo successo. Spiace dirlo ma è finita: Maurizio Sarri si è imborghesito.

Perché “certe crisi son soltanto segno di qualcosa dentro che sta urlando per uscire” prosegue Guccini, e forse questo richiamo è arrivato anche all’orecchio e al cuore di Maurizio dimostrando che l’idea di un calcio romantico resta la più bella, ma quella di un calcio cinico rimane la più reale. Ma il tifoso negazionista non vuole ammettere di aver adorato un dio sbagliato, non vuole accettare una sconfitta morale e prova a giustificare il tutto con il concetto di professionismo. Ancora una volta la risposta ce l’avrebbe Guccini, il meno borghese dei cantautori italiani: “È difficile spiegare, è difficile capire se non l’hai capito già”.

Luca Forte.

Articolo modificato 4 Giu 2019 - 16:04

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