La cosa più toccante di questi giorni di lacrime, preghiere, santini, maglie, sciarpe e lettere, è la sua iconografia. In tutte le foto Diego è giovane, sorridente, ha i ricci ancora svolazzanti e la sua immancabile dieci sulla schiena. Un’effige, più che un calciatore, che scavalca i video e le foto privati e imbarazzanti, quelli divulgati solo per deriderlo. Nella morte, nell’addio, nel lutto, riecco Diego e Maradona. L’uomo e il calciatore che si consegnano all’immortalità.
Eterno come un personaggio letterario, poetico come i migliori versi, anarchico come… De André. C’è un filo sottilissimo che lega l’Immortale di Lanùs con quello di Genova e che rende Diego perfettamente calzante con un brano di Faber. Si colloca tra il rinato Tito, la ribelle Bocca di Rosa e l’incompreso Matto. Diego, come ogni sembianza uscita dalla penna, la voce, la chitarra di De André è rivoluzione, è pensiero-azione, è anarchia. Come loro, si costruisce il proprio destino stravolgendo schemi e facendo infuriare i perbenisti, quelli dei castelli di carte costruiti a colpi di finzione.
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E con il sorriso di chi, soddisfatto, risponde solo agli istinti. Soprattutto, è un ultimo. Non si pone come modello, rifiuta l’esistenza patinata, accettando i suoi errori, le sue contraddizioni, le sue cadute più rumorose e rovinose. La perfezione non esiste e bisogna affondare le mani nel fango per capirlo, per evitare di sputare giudizi da un piedistallo.
Il male Diego l’ha fatto solo a se stesso, il bene – quello – l’ha dispensato ovunque. Il Maradona tra il fango e le macchine, nel parcheggio del dissestato campo di Acerra, per una partita benefica (PER APPROFONDIRE), è un ultimo consapevole delle sue origini e della sua missione. È un poeta maledetto che non ha paura di frequentare le peggiori bettole pur di scandagliare ogni aspetto della vita. Ma la sua penna, in questo caso il piede, produce i versi più toccanti mai letti o uditi. L’anarchia di Diego si nota nella sua libertà di essere se stesso con gli ultimi e i primi, quella di trattare il ragazzino della Primavera del Napoli come Ferlaino e Ferlaino come il Papa.
E De Andrè?
Di Maradona, Faber, ha scritto davvero. L’ha fatto in alcune pagine nascoste, che ci mostrano il suo lato più privato, più politico, più schierato. Ci rivelano che l’arte – e questo deve ricordarcelo proprio Faber – è nascosta anche negli aspetti più piccoli e contraddittori. Il racconto su Maradona è contenuto nei diari pubblicati da Mondadori nel 2016 sotto il nome “Dietro le ciglia chissà”. L’anno è il 1990 e la lotta punto a punto tra Napoli e Milan, prima del Mondiale, è agli sgoccioli. Faber scrive:
“Se vince il Milan avremo l’immagine, anche calcistica, di un’Italia lavoratrice ed efficientista, un po’ stacanovista e molto ben organizzata, cosa che per altro non corrisponde affatto alla realtà se non appunto nella sola città di Milano.
Se vincerà il Napoli, che meno mi affascina per il gioco ma molto di più per la tifoseria e per una sorta di solidarietà marinaresco-canora che mi porta a nutrire un sincero affetto per la città e per i suoi abitanti, vorrà dire che l’Italia porterà di sé ai mondiali un’immagine di genio (leggi Maradona) e sregolatezza (leggi sempre Maradona), uniti a quel senso di pigro fatalismo sempre più caro e più prezioso che dà la capacità di osservare la vita un po’ da distante, coinvolgendoci quel tanto che basta per riuscire ad esprimersi in poesia; e queste due ultime caratteristiche non sono più esclusive di Maradona, che secondo me è comunque nato a Napoli, ma sono peculiari all’intera città“.
Poesia, ribellione, genio, sregolatezza, libertà: alla fine vinse il Napoli, ma su questo non c’erano dubbi.
a cura di Vittorio Perrone
Articolo modificato 29 Nov 2020 - 15:35