E poi ti svegli.. E senti che qualcosa manca..
Ti mancano i periodi in cui i gol di Cavani erano decisivi, definitivi come una sentenza già scritta; ti mancano i tagli di Hamsik; la capacità di Pandev di mantenere la palla incollata al piede; Maggio che, come una freccia scoccata in maniera precisa, non ne sbaglia una, si muove come una lince, macina chilometri, divora avversari, salta, torna indietro a fare la fase difensiva e, poi, eccolo, come se fosse caricato a molla, farsi vivo sul fronte d’attacco.
Ti manca l’idea di gioco; quel colombiano sorridente che sembrava avesse anche imparato a fare dei dribbling costruttivi (non come quelli di qualche anno fa che finivano sempre in bocca all’avversario) e l’infortunio se lo porta via nel momento migliore; ti manca Mazzarri forsennato in panchina; il suo rito del togliersi la giacca; ti mancano le canzoni della curva per un Napoli che, invece, adesso, lentamente scompare..
Oscurato dai troppi errori. Gli sbagli, prima che sul campo, sono nella mente dei giocatori: la vittoria è, prima di tutto, una disposizione mentale; è quella voglia che ti fa andare avanti, quel desiderio di dare gioia al tuo pubblico e ti spinge a saltare il muro degli avversari. Gli azzurri non hanno mai veramente imparato cosa significa vincere di misura; il Napoli o è una pirotecnica realtà o un cerino che non riesce a comprendere come aggirare l’avversario.
Mazzarri ripete (più per convincere sé stesso che gli altri), come fosse un mantra, che è un periodo, che in questo momento ci va tutto storto; per l’allenatore le sconfitte (non me la sento d’inserire il pareggio con la squadra di Ventura nella lista dei risultati chiusi con il segno X; questa è una sconfitta a tutti gli effetti, ha tutti i crismi per esserlo: i rimpianti, gli errori del gruppo e la follia del singolo, l’espulsione dell’allenatore e i fischi della curva.. Se questo non è uno scenario da sconfitta ditemi voi cos’è!) sono sempre meteore, fatalità, fulmini scagliati da una mano divina e capricciosa.
Se il Napoli avesse vinto con il Torino avrebbe semplicemente dimostrato che, nel calcio dei grandi numeri, sono ammesse le brutte prestazioni ma non i brutti risultati; al contrario questo sport sa avere dei momenti di lucida malvagità: il pareggio con i granata si va ad inserire perfettamente nella situazione attuale della squadra e, viene quasi da dire, è giusto così.
Sarebbe stato troppo facile voltare pagina in questo modo; tutti avrebbero potuto accarezzare la dolce idea secondo cui le sorti della squadra iniziano e finiscono con il Matador; unico vero ago della bilancia. Sarebbe stato uno scenario ingiusto: questo è e rimane uno sport di squadra e il singolo, seppure formidabile, non può riuscire, da solo, a togliere il gruppo da quel baratro in cui si è calato.
La partita è iniziata veramente dopo il gol del pareggio; l’unica vampata di calore in un match spento, dai toni blandi, senza alcuna pretesa e senza comprendere che una vittoria ci avrebbe rispediti a meno tre dalla capolista. Per tutti questi motivi, e non per altri, è quasi inutile procedere nel dettaglio ad un’analisi dei novanta minuti; anche perché, nella mente di ognuno di noi, non c’è altro spazio se non per quella follia. Una follia di un uomo, Aronica, appena entrato, a freddo, ed inserito nel più scomodo dei contesti di gioco; quello in cui si deve amministrare.
Ma la pazzia di Aronica non è solo di Aronica: nasce da quella incapacità di fondo degli azzurri, una lacuna incolmabile.. Quando si tratta di mantenere il pallone tra i piedi la squadra di Mazzarri va in confusione; non è un caso che, molte partite, il Napoli ha rischiato di perderle quando non è riuscito a raddoppiare, a chiudere il match in maniera agevole.
Con il passare dei minuti la logica tattica impone di abbassare i ritmi, anche l’uscita di Dossena e il conseguente ingresso di Aronica è frutto di questa sensata idea di gioco, eppure ci si dimentica che gli interpreti, questo spartito, non lo sanno suonare.
I piedi si fanno pesanti, ogni passaggio indietro è un brivido: il Sansone del “Libro dei Giudici” aveva come amuleto la sua chioma folta; questo Sansone, il giocatore del Torino, è più concreto, reale; possiede la lucidità, la rapidità e la capacità di farsi trovare al posto giusto al momento giusto.. Tutte caratteristiche che, questo Napoli sprecone, non possiede.
Ancora una volta abbiamo subito una lezione di calcio da un avversario nettamente più debole; ancora una volta non siamo riusciti a scrollarci di dosso i fantasmi.
Nel calcio moderno si sta facendo avanti la figura del “Mental Coach” (una figura che s’inserisce nello staff tecnico e coopera con esso curando specialmente l’aspetto mentale e motivazionale; partendo dal presupposto che, correre per novanta minuti, tenere a mente gli schemi, agire in gruppo e superare le proprie difficoltà, richiede uno sforzo che va oltre la semplice cura della tenuta atletica): sembra una trovata bislacca, una forma di progresso fine a sé stessa, un dettaglio che, per gli scettici, è semplicemente un di più. Io ero di questa scuola di pensiero, pensavo che questa soluzione fosse poco utile eppure, dopo aver visto il Napoli, al San Paolo, farsi sfuggire di mano la gara inizio a ricredermi.
Gianmarco Cerotto
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