Oggi desidero spostare l’attenzione dall’undici titolare di una squadra alla sua panchina; voglio cercare di analizzare la profonda umanità, la capacità di rinuncia, la forza mentale di quanti vivono il calcio ma sono costretti ai margini.. Forse per l’età, la tecnica non eccelsa, la forma degli altri o, semplicemente, le scelte del mister.
Ma loro sono lì, a guardia del futuro, responsabili di farsi trovare pronti nonostante tutto; si allenano, corrono, li vedi che si scaldano, ma possono anche non entrare, e ciò non li rende tristi o furiosi, scontenti o capricciosi ma, piuttosto, orgogliosi di viversi il momento; di sorreggere il gruppo.. Perché chi è ai margini in campo non è detto che lo sia nello spogliatoio.
Non tutti riescono a vivere bene la condizione di gregario: basti pensare all’uscita di scena, in casa partenopea, di giocatori come Denis o, in modo differente, dello stesso Quagliarella, che non sono riusciti ad anteporre alla volontà di farsi notare la capacità di mettersi al servizio degli altri. Il talento dei panchinari è un’attitudine: sono operosi, personaggi che riportano il calcio alle proprie origini; quando non si era divi ma coscienti di esercitare una professione, senza stipendi faraonici e l’aria di chi è abituato a mostrare il viso alle telecamere.
E’ a partire da queste premesse che pongo un quesito importante: Essere una bandiera per una compagine cosa significa?
Essere una bandiera significa possedere grandi doti, avere il ruolo assicurato, trascinare la squadra? Essere una bandiera è forse una costante solo per quanti baciano la maglia dopo un gol?
Secondo il mio punto di vista, per essere una bandiera, bisogna, prima di tutto, esserci: vivere la squadra dai suoi albori, seguirla nel processo di crescita, condividere gioie e dolori, rendersi conto, anno dopo anno, che si va sempre più avanti; rincorrendo trofei e calcando campi importanti. Riconoscere che il tempo passa e il proprio tempo, quello da protagonista, si esaurisce; perché la crescita del gruppo, l’arrivo di nuovi elementi in rosa, mette ai margini quanti non sono più all’altezza.
Essere all’altezza, e questo è certo, è una variabile e non una costante; quel giocatore che, stabilmente, dà la sua disponibilità, che mai andrà via e mai vorrà andare via, è in ogni caso all’altezza; raggiungendo altezze che altri nemmeno conoscono. Il peso del leader; questo significa essere una bandiera.
Gianluca Grava, nel Napoli, incarna precisamente questo prototipo di giocatore: dalla serie C1 alla Champions League con tanta umiltà e un buon gioco d’anticipo; capace di ritrovare, con Mazzarri, uno stato di forma e una continuità tale da potersi guadagnare nuovamente un posto da titolare.
Nella stagione 2009-2010, infatti, dopo aver precedentemente attraversato una fase d’inattività sotto la gestione dell’ultimo Reja e aver riguadagnato, in parte, la maglia con Donadoni, colleziona 24 presenze di cui 22 dal primo minuto. Il 15 gennaio 2011, nella partita contro la Fiorentina, conosce l’inferno; guarda negli occhi il mostro dell’infortunio al “Legamento Crociato Anteriore” del ginocchio sinistro ed è in grado di risollevarsi.
La società, nonostante tutto, gli prolunga il contratto: il 19 gennaio riceve la notizia che gli dà sicurezza; quella certezza di poter tornare a giocare e, infatti, undici mesi dopo l’infortunio, scende in campo; gettandosi alle spalle quel rumore sordo e penetrante che t’investe quando il ginocchio cede.
Ma è l’inferno morale quello che brucia di più: non è giusto che in questa biografia, sotto il profilo umano e sportivo, ci sia la terribile macchia dei sei mesi di squalifica; nonostante non abbia avuto colpe.
Bisogna stringersi intorno alla squadra e tributare ad ognuno il giusto riconoscimento..
Ci sono tanti modi per essere capitano e per questo ringraziamo Gianluca Grava.
Gianmarco Cerotto
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