Certi posti sono sempre aperti. Diffidate del cartello con su scritto “chiuso”, dell’oste che, spolverando, vi chiede di tornare domani, quando, stanco e assalito dalla fatica, s’appoggia all’ingresso e fuma sulla soglia del suo lavoro, prima di tornarsene a casa.
Già per le storie dei fratelli Starostin e di Eduard Strelsov, campioni lontani, in vita confinati dentro le regioni del potere, dopo, liberati dalla leggenda, la nostra piccola osteria dei segreti, che, come le botteghe color cannella di Bruno Schultz, è spuntata fuori, lì, in fondo a un vicolo praghese, o un viottolo polacco, oppure in una strada russa, per aprire un varco notturno e clandestino a un’altra storia che, in un tempo lontano, ha unito la prodezza del pallone al mito dannato della dominazione politica.
Nulla di nuovo, per carità. Mille altre racconti ne hanno descritto gli accaduti, attraverso il vocio pudico e prudente della notizia diffusasi poco a poco, già prima che l’epilogo rivelasse il destino dei suoi protagonisti. Chissà che non si sia qualche volta fermato anche lui, il grande Kocsis, presso i tavolini dove una volta sostò la donna misteriosa della storia di Strelsov, o come gli avventori che hanno conosciuto i fratelli Starostin, o come i tanti passati e usciti indisturbati, nei loro anonimati ricolmi dei più profondi abissi.
Sandor Kocsis, ungherese classe ’29, inizia la sua carriera di calciatore con la maglia del Ferencvaros. Durante la guerra, non per tutti è possibile allenarsi all’aperto, e spesso molte squadre di professionisti sono costrette a farlo in luoghi chiusi, costrette, per questo, a limitare il campionario tattico e atletico degli allenamenti. Del resto, la guerra piega la libertà di aggregazione del calcio, che, comunque, riesce a scovare strade più clandestine per sopravvivere. La propaganda e la politica, le organizzazioni autonome, l’iniziativa personale, il coraggio di alcuni o la stessa prigionia, in alcuni casi, diventano mezzo per la prosecuzione del football.
Sandor riesce ad allenarsi anche in un periodo difficile come quello della seconda guerra mondiale, e, nel 1949, dopo essersi distinto come un attaccante di talento, forte soprattutto nel gioco aereo, vince lo scudetto con la Honved, squadra capace di segnare 140 goal in una sola stagione. Kocsis ne mette a segno 33.
Sono gli anni della grande Ungheria, quella di Nandor Hidegkuti, personalità di acciaio capace di guidare una delle compagini più forti e spettacolari della storia del calcio. L’Ungheria di Puskas e Bozsik, con quella formazione capace di ridicolizzare Brasile e Inghilterra. La macchina perfetta di Hidegkuti cede il passo, nel 1954, nella finale di Coppa del Mondo, a Berna, alla Germania occidentale. La finale del mistero, di quando una Germania alle corde capovolge un risultato che sembra aver consegnato la coppa agli ungheresi già dopo 8 minuti, vedendo i magiari in vantaggio per 2 a 0. Mille sospetti su quella partita, compreso quello di un arbitraggio scandaloso e del doping, in teoria utilizzato dai calciatori tedeschi che, dopo la partita, sono costretti al ricovero a causa di strani dolori al fegato. Ma, di fatto, l’Ungheria, nonostante la forza della sua selezione nazionale, non riesce a conquistare il Mondiale, perdendo l’incontro per 3 a 2. Nel ’54, il ritorno in patria porta con sé la delusione.
Nel 1956, Sandor gioca ancora nella Honved, diventata una delle squadre più importanti del campionato ungherese. In quello stesso anno, scoppia l’ottobre ungherese, con l’inizio dei moti rivoluzionari che non vogliono il regime comunista imposto dai sovietici. Nell’Ungheria rivoltosa, s’istaura un clima di diffidenze e imposizioni, dissidenze e ritorsioni. Gli arresti e le attività controrivoluzionarie all’inizio non sono sufficienti. Allora, in nome del Patto di Varsavia, l’URSS di Nikita Chruscev decide di dare all’Ungheria e a tutto il mondo comunista, una severa lezione. Centinaia di carri armati e circa duecentomila soldati, invadono l’Ungheria per reprimere la resistenza dei movimenti operai protagonisti della rivoluzione.
Intanto, per la partita di ritorno di Coppa dei Campioni, la Honved, contro l’Atletico Bilbao, è costretta a giocare a Bruxelles, all’Heysel, dove oltre alle preoccupazioni per le sorti del proprio paese, i magiari trovano l’inattesa eliminazione dal torneo.
La propaganda comunista non vuole destabilizzare l’ambiente sportivo, troppo importante per i propri fini populistici. Per questo, il governo ungherese filo sovietico, fa esibire la Honved nei campi di tutta Europa, nonostante la chiusura verso il mondo occidentale. Il versante ovest del mondo, non si priva della bellezza della compagine ungherese, ma il governo comunista impone ai propri calciatori le regole della dittatura, perché solo pochi atleti possono lasciare l’Ungheria senza finire arrestati o uccisi dalla polizia di frontiera.
Intanto, a Budapest la situazione degenera, e tra novembre e la fine di dicembre, il governo di “luogotenenza” russa, reprime nel sangue la rivolta e il tentativo di liberazione dall’oppressione sovietica. Secondo stime mai del tutto accertate, vengono fucilate più di mille persone, e tra questi, alcune sono vittime di processi celebrati in gran segreto, specie contro giornalisti ed esponenti della comunicazione rivoluzionaria.
Il 20 dicembre del ’56, il governo ungherese richiama in patria la Honved. Solo alcuni calciatori rispondono all’ordine. Sandor Kocsis, invece, non obbedisce. Si rifugia in Svizzera, dove il presidente dello Young Fellows vorrebbe ingaggiarlo, ma la federazione ungherese, ovviamente, non gli concede il nulla osta. Kocsis, senza il calcio che fino a quel momento gli aveva dato da vivere, inizia a fare il commerciante, ma con poca fortuna. Riesce a racimolare solo il danaro per farsi raggiungere in Svizzera dalla moglie e dalla figlia, fuggite dalla Budapest in rivolta grazie a dei favori economici assicurati ad alcuni agenti della polizia di frontiera.
La lontananza dai campi di gioco lo demoralizza, scaraventandolo in un baratro al limite della depressione. Arrestato a Zurigo per ubriachezza, si salva dalla galera solo grazie a una cauzione. Nel 1958, l’Ungheria concede l’amnistia ai calciatori che, due anni prima, non avevano obbedito all’ordine di ritornare in patria. Ma in Sandor, la sfiducia ha preso il sopravvento. Anche questa volta decide di restare in Svizzera dove finalmente viene tesserato dallo Young Fellows. Riprende a giocare come sa e l’anno successivo viene acquistato dal Barcellona. In Spagna vince 2 campionati, due Coppe nazionali e una Coppa delle Fiere (la vecchia Coppa UEFA).
Nel 1961, torna a giocare una partita nello stadio di Berna, il Wankdorf Stadium, dove pochi anni prima aveva dovuto subire la più grande delusione della sua carriera. In quello stesso stadio, la sua squadra, il Barça, perde 3 a 2, contro un grande Real Madrid. Sandor conosce ancora la sconfitta laddove erano iniziate le sue peripezie, prima di calciatore e poi di uomo. E anche questa volta, per lui, è l’inizio di nuove sofferenze. Berna è la stazione di partenza di un’altra direzione verso il tormento. Sandor non vuole tornare in Ungheria perché il suo paese è ancora sotto dittatura comunista. Resta in Spagna, dove, una volta lasciato il calcio, che intanto lo emargina senza dargli più opportunità, inizia l’attività di ristoratore. Ma la sua vita è il football, e lui sembra non riuscire a “liberarsene”, tentando la carriera di allenatore. Purtroppo, quel pallone che tante soddisfazioni gli aveva riservato, lo emargina con netta e spietata indifferenza.
Nel 1978, dopo tanti anni lontano dalla sua Ungheria e dopo aver covato a lungo gli effetti dei forti dispiaceri subiti, viene ricoverato in una clinica a causa di forti dolori allo stomaco. Sandor teme di avere qualcosa di grave, probabilmente un cancro o la leucemia. Allora, il 22 luglio del 1979, decide di buttarsi dal decimo piano dell’ospedale. Già vent’anni prima aveva tentato il suicidio ingerendo un tubetto di barbiturici, ma il tempestivo intervento medico lo aveva salvato. Stavolta no, l’uomo dei grandi salti nell’area di rigore, aveva deciso di dire addio alla vita senza che nessuno potesse farlo tornare indietro.
Dettaglio del destino. Sandor, a sedici anni, ragazzo tutto speranze e talento, aveva debuttato nel campionato ungherese sostituendo un calciatore di nome Laszlo Rubala, che aveva abbandonato l’Ungheria perché dissidente, rifugiandosi a Vienna. Sandor, del fuggiasco Rubala, aveva preso il posto anche in nazionale, ignaro che un giorno, ne avrebbe ereditato anche la fuga.
Quando una maglia, non trattiene soltanto il sudore. E intanto, dentro la nostra osteria dei reduci dal calcio di un tempo, nessuno ci impedisce di immaginare che ve ne sia una appesa, e che qualcuno, senza saperlo, come Sandor Kocsis, l’abbia pure indossata, portandosela via.
Sebastiano Di Paolo, alias Elio Goka