Se prima è occorso qualcuno che desse una nomenclatura al calcio, adesso è tempo che qualcun altro restituisca al pallone la maschera asciutta e imbronciata della serietà. Pressappoco, la stessa missione compiuta dagli saggi antichi di quel consesso di spudorati brontoloni che facevano del futbol una ragione della narrativa.
Sono passati i tempi di quando Gianni Brera impiegava il suo ingegno di giornalista a irritare le certezze e a ingrassare le amare ironie sui vizi e i vezzi dei pallonari educati dall’emergenze targate dopoguerra. Se qualcuno usava il pallottoliere, strumento poi divenuto avvezzo agli sfottò per i punteggi calcistici, per evitare le brutte figure durante i primi anni delle elementari, c’era chi non faceva mistero dell’uso abituale di curiosi alambicchi cerebrali votati alla sperimentazione del linguaggio adottabile come il dizionario “Il”, la parola del soccer verbalizzata come un marchio presso i registri competenti.
Era questo il primo scopo di alcuni giornalisti, che in fondo spiccavano come unici, quando la domenica oltre che prendersi gioco dell’ossequio alla fatica dell’atleta, aggiungevano qua e là il neologismo che facesse da incipit a una decina d’anni di rotative.
Gianni Brera si occupava di forgiare la dicitura composta e leggera di certe parole dotate di cadenza transalpina, come la “melina”, o il “contropiede”, o la “rifinitura”, oppure alcune cadute dal pensiero col ricordo dell’antichità classica. Una su tutte, l’Eupalla, la dèa del calcio e del bel gioco, venuta fuori dal greco e dall’italiano adattato proprio alla maniera “futbolista”.
Ma che Brera avesse un debole per tutto quanto provenisse dalle nostalgie nebbiose della Padania “subalpina”, era cosa nota e risaputa, e non si commette nessun oltraggio ad ammettere che il maestro lombardo non sempre riusciva a trattenere la sua gioiosa, forse sana, antipatia per certi rovesci della medaglia meridionale, a suo onore, questo va riconosciuto, vista e rivista con la lente istruita del luogo storico “derubato” dalla storia.
Celebre è la lettera di Brera ad Achille Lauro, “comandante della flotta” napoletana – che per anni nutrì le speranze della cittadinanza e del tifo napoletano – ammonendolo, con la raffinata e comprensibile farcitura storiografica, di non approfittarsi del giogo umano d’una città troppo antica e provata come quella napoletana.
Diversamente, come non trascurare il tratto ormai tenuto nell’angolo della grazia discreta, di Beppe Viola, che, guardate un po’, pure lui dentro fino al collo, sapeva come capovolgere la “fredda” e stereotipata Milano, in un rovescio di emozioni tenuto stretto per un commentario umano dove la risata era il transito di mille malinconie.
E mentre a nord si predicava il calcio efficiente, a sud, Alfonso Gatto, trovava la ricetta per raccontarlo, il calcio nazionale, fuori dai drammi delle divisioni e dentro il romanticismo misurato del meridionale che conosceva “l’altrove ostile”.
Che poi, il pallone, se vogliamo, si è sempre rifiutato di adeguarsi alle scaramucce dei quattro punti cardinali, risolvendo ogni disputa con gli spontanei adattamenti tanto dei suoi interpreti, quanto dei suoi narratori.
E, per restare in tema di narratori del pallone dal punto di vista del testacoda post unitario, sembrano lontani pure i tempi di quando a Manzoni fu affidato il compito di individuare la “lingua nazionale”. Quella del pallone, invece, ha seguito una strada più sghemba, in parte smarrita, di “Quelli che”, come cantava Jannacci.
Sebastiano Di Paolo, alias Elio Goka