Di allenatori stranieri il Napoli nato nel 1926 ha buona tradizione. Una lista lunga che riserva a Benitez la diciassettesima poltrona. Sì, chi magari crede in certe cose toccherà ferro immediatamente, ma lui che è spagnolo con ascendenti british non ci farà neppure caso. Un sorriso e via, magari anche per smentire una storia che vuole le panchine stranieri mai vincenti. Mai, tranne una volta. Mai, tranne quando il Napoli ha vinto qualche coppa e coppetta col Petisso. Roba di un bel po’ di tempo fa: una Coppa Italia nel ’62; una Coppa delle Alpi nel ’66; una coppa di Lega italo-inglese nel ’76. Tornei e trofei dei quali, fatta salva la coppa di casa nostra, pochi ne conservano il ricordo. Tre successi e tutti con la stessa firma: Bruno Pesaola, l’argentino che prima di diventarne allenatore fu anche numero dieci della squadra.
LA STORIA – E gli altri? Nomi noti, meno noti e anche nient’affatto noti, ma importanti. Perché fu proprio con loro, con Anton Kreutzer – l’austriaco al quale piaceva farsi chiamare Fritz e che nel 1926 all’Alba Roma segnò anche il primo rigore della storia azzurra – e con i suoi connazionali Bino Shasa, Rolf Steiger, e Otto Fischer e poi con gli ungheresi Molnar, Csapkay e Payer, che il nuovo Napoli fece i primi passi. Archeologia azzurra, è vero. Come è vero che allora per il calcio le novità arrivavano tutte da lontano: le maglie, i palloni, le parole base e anche chi allenava. Ma chi furono gli stranieri che indicarono la strada, che lasciarono un’impronta? Di sicuro Garbutt. William Garbutt: pipa inglese e cuore napoletano, il quale insegnò al Napoli i primi rudimenti del professionismo. Il mister con il quale chi sbagliava in campo poi fuori pagava da bere a tutti quanti. L’uomo di grandi sentimenti che adottò anche una bambina avellinese che lo seguì fino in Inghilterra e che è rimasta con lui sino alla fine. Garbutt, dunque. E poi, Paulo Innocenti detto Pippone, il brasiliano che presto “diventò” napoletano pure lui. Ecco, se c’è una costante – o quasi – in tutte queste storie, è che alla fine Napoli ha rubato molti di quei cuori che poi non se ne sono andati più. Quelli di prima della guerra e quelli dopo la guerra. Attila Sallustro, ad esempio: il paraguaiano che, quando giocava in maglia azzurra, proprio Bino Shasa inutilmente tentò di trasformare da centravanti in centromediano e poi il Petisso e poi Vinicio. “‘O lione” che non vinse nulla, ma che all’inizio degli anni Settanta anticipò al San Paolo la risposta brasiliana al calcio europeo battendo sul tempo anche la grande Olanda del calcio totale. Un Napoli a zona che costò, è vero, anche qualche scoppola sonora, ma che regalò ai napoletani un calcio bello e divertente come prima non s’era visto mai. E che sfiorò addirittura lo scudetto.
IL CUORE – Pesaola e Vinicio, dunque. L’argentino e il brasiliano uniti da un’amicizia antica e vera. Tant’è che c’era pure lui, pure ‘O lione alla festa degli Ottanta del Petisso, Lui, Vinicio, e gli eterni ragazzi di don Bruno: Juliano, Montefusco, Canè, Abbondanza, Improta. E dopo di loro il grande Boskov. “Zio Vuja” , il professore, visto che generazioni e generazioni di tecnici hanno letto, riletto e studiato i suoi testi per diventare allenatori. Poi, dalle soddisfatte chiacchiere e dalle risate piene del serbo Vuja Boskov ai silenziosi anelli di fumo di Zdenek Zeman. Ma la sua fu una storia breve. E ingiusta, se si vuole. Troppo breve e ingiusta per lasciare una traccia vera. Zeman l’ultimo. Anzi, il penultimo. Dopo di lui Benitez. Rafa. Don Rafael. Lo spagnolo che non s’è ancora presentato ma che già fa il napoletano.
Fonte: Corriere dello Sport