A volte ritornano. Maturi, scalfiti. Ma il sapore resta quello antico, genuino. Napoli lo ha lanciato nell’Olimpo. Come una biglia infuocata ha attraversato mille galassie prima di arenarsi nuovamente alle pendici del Vesuvio. Fabio Pecchia, ciociaro tinto d’azzurro, è il figliol prodigo che si attende impazienti sull’uscio di casa. Prima o poi sarebbe tornato. In una qualsiasi veste. Perchè gli esempi positivi danno lustro alla nostra città. Piglio da trascinatore in campo, faccia pulita e testa sui libri fuori dal terreno di gioco. Da “professorino” ad avvocato il passo è stato breve. Quel Napoli di fine millennio non era la vetrina più idonea. Rafa Benitez, inebriato dal suo stile e dalla sua napoletanità, gli concede un’altra chance. Sfida aperta. Con il passato in tasca a fare da talismano.
DUE DESTINI. Seconda esperienza partenopea, in realtà terza ma quella fulminea nel 2000-2001 a pochi è rimasta impressa. Secondi, al massimo un minuto, perchè il pluridecorato allenatore spagnolo annuisse alla proposta della società di piazzargli Pecchia al suo fianco. Conoscitore di calcio e poliglotta (inglese, spagnolo e francese le frecce nel suo arco), invaghito di Rafa dai tempi del Liverpool, quando accorreva a seguire i suoi allenamenti. Introdotto al ruolo di mister da un altro guru come Zdenek Zeman nella sua stagione a Foggia qualche anno fa. Poi ha deciso di mettersi in proprio. La laurea in giurisprudenza il suo grande traguardo, ma il profumo dell’erbetta era ormai parte di lui. Sulla panchina del Gubbio si è messo in discussione per la prima volta, a Latina, pochi mesi or sono, ha dimostrato tutto il suo talento. Ancora una volta. Ancora una volta stroncato appena sbocciato.
FINO IN FONDO. Partenope lo ricorda come si fa solo con quelli che non mollano mai. Fisico minuto, passo da gigante. Spirito da gladiatore e classe cristallina. Tra il ’93 e il ’97 ha tracciato un sentiero nel cuore dei napoletani. Era ovunque. A ripiegare, interdire, impostare e finalizzare. C’era anche in quella finale, quella maledetta finale di Vicenza. All’andata, quando al San Paolo si entrava con sole mille lire, appose proprio lui il sigillo sui sogni. Sogni infranti, purtroppo. C’era anche a Milano e a Torino, quando i suoi gol spaventavano le grandi del nord che già starnazzavano sui nostri disastri societari. C’era, con le lacrime agli occhi, quando fu sacrificato per tenere a galla la vecchia dirigenza e spedito alla Juve per 10 miliardi di lire. Lui che era stato prelevato dall’Avellino per tramutarsi in uno dei golden boy dell’epoca. Ha dato tutto sè stesso per una causa già persa, quando proprio i banchi di Mezzocannone gli avevano insegnato le strategie vincenti. Qualcosa è rimasto incompiuto. E’ ora di saldare i conti con il fato.
“Sono orgoglioso di essere il vice di Benitez. Esserlo nel Napoli mi rende fiero“. Binomio tutto da scoprire. L’asso di coppe e il fante, saggezza e freschezza, napoletanità acquisita e napoletanità da acquisire. L’orgoglio come centro focale della loro scelta, Napoli come mare impervio per navigatori impavidi. Orgogliosi noi di aver concesso la nostra anima alle vostre mani. Siate solo voi stessi. In bocca al lupo, condottieri!
Ivan De Vita
Riproduzione riservata