Daniele Sepe è un sassofonista napoletano. Negli anni ha maturato un’esperienza e una perizia che lo collocano di certo tra artisti di notevole livello. Ha collaborato con tanti altri musicisti e registi cinematografici e teatrali. Da Vinicio Capossela a Teresa De Sio, da Mario Martone a Gabriele Salvatores. Figlio della Napoli votata a un senso civile e spirituale dell’arte, suona il jazz e affronta le sperimentazioni di molti altri generi musicali.
Daniele, tu hai frequentato il conservatorio di San Pietro a Majella. A Napoli, già tra il XIV e il XV secolo c’erano quattro conservatori, “I poveri di Gesù Cristo”, “Sant’Onofrio a Porta Capuana”, “Santa Maria di Loreto”, “La pietà dei turchini”. Una città che aveva conservatori in abbondanza, invidiati in tutta Europa. Luoghi dedicati a santi e alle figure sacre. Oggi non è più così. Come è successo che poi tutto si è irrimediabilmente votato alla violazione?
I conservatori erano spesso dedicati ai santi perché molti orfanelli venivano avviati allo studio della musica. C’era questo legame facilmente spiegabile. Dal punto di vista storico sarebbe complicato spiegare il decadimento di luoghi così antichi, ma, volendo restare ai giorni nostri, molto è dipeso dalle amministrazioni. Napoli ne ha avute di serie e costruttive. Ricordo l’amministrazione Valenzi e la prima di Bassolino, ben predisposte a un sostegno alla cultura in senso ampio. Oggi invece si tende alla organizzazione dei grandi eventi, ma la concentrazione di risorse intesa in questa maniera non porta da nessuna parte, soprattutto per una salvaguardia più accorta della tradizione musicale, vasta come quella napoletana.
Tu ti occupi di molti generi musicali. Tra questi il jazz. Molti lo hanno definito come un genere dell’improvvisazione. Non pensi sia una definizione riduttiva e superabile?
In fondo molti altri generi hanno subito e subiscono modalità di improvvisazione. Anche il rock. L’improvvisazione è ovunque. L’importante è farlo bene. Non è determinante quello che si sceglie di fare, ma come si fa. Il jazz è nato dal blues, dalla povera gente, e come ogni genere si è sottoposto alla sperimentazione. Non è necessario darsi delle etichette, ma, ripeto, è importante fare bene le cose, pensandole ed eseguendole con intelligenza e qualità. E poi è sempre fondamentale fare quello che ti piace. Forse è il primo passo per poter fare le cose migliori.
Quando hai suonato col gruppo Zezi eri giovanissimo. Zezi era il gruppo storico dell’Alfasud di Pomigliano d’Arco. La tua musica, da sempre, ha conservato e conserva una forte connotazione militante. Oggi, per te che hai vissuto decenni significativi, parole come operaio, militanza, lavoro, cosa significano?
Oggi operaio vuol dire miseria, cassa integrazione. Non vuol dire più dignità. È cambiato il lavoro, sono cambiati i punti di riferimento. Oggi il sistema mette in competizione gli stessi compagni di lavoro, non più col padrone ma tra di loro. È la necessità che aumenta l’aggressività, attraverso uno spirito di conservazione che disunisce.
Da napoletano, come vedi la nuova squadra targata Benitez?
Guardo alla nuova stagione con curiosità. Mi piaceva molto Mazzarri. Adesso, col nuovo allenatore, sono un po’ curioso e un po’ preoccupato, perché la squadra è completamente cambiata. È un Napoli dal volto nuovo. Staremo a vedere.
Elvis Costello diceva che “parlare di musica è come danzare di architettura”. La musica è un genere artistico che sfugge spesso alle catalogazioni. Distinguere i generi musicali talvolta è una situazione di comodo, un’esigenza per non smarrirla del tutto. Ma qualcosa irrimediabilmente sfugge, e allora corrono in soccorso quelli come Daniele Sepe, che provano a recuperare i pezzi smarriti. C’è un’arte che recupera quello che verrà. Si chiami jazz o qualche altra cosa, l’importante che funzioni.
La redazione di Spazio Napoli è grata a Daniele Sepe per questa intervista.
Sebastiano Di Paolo, alias Elio Goka