Venticinque anni fa la battaglia del “Flaminio” finì ad armi pari

526x297-MNCNell’arena del “Flaminio” di Roma va in scena il “Derby del sole“, una gara sentita e adrenalinica già da allora, all’epoca, poi, si era da poco rotto il giocattolo del gemellaggio, un’amicizia incrinata per colpa di una sciocchezza di Salvatore Bagni, che, con il suo “gesto dell’ombrello” durante il match di due anni prima, rovinò un rapporto che fu definitivamente chiuso nonostante le sue scuse postume. La cronaca del match dirà che in campo si affrontarono due compagini che, alla lunga, dimostreranno una garanzia di qualità e spessore atletico degni dei protagonisti del torneo, che vedrà gli azzurri avere la meglio grazie anche ad una determinazione e decisione che nei giallorossi è mancata troppo presto.

La gara comincia bene per la Roma, padrona del gioco oltre che del campo, non solo in termini puramente territoriali, con un Bruno Conti sugli scudi, surrogato dal giovane Desideri e dal “principeGiannini, quest’ultimo con l’handicap di aver sbagliato un gol a porta spalancata. Il Napoli, dal canto suo, manca di lucidità, con Maradona e Careca assenti dalla manovra, affidata ai “gregariDe Napoli e Fusi, che ha supportato al meglio dapprima il centrocampo azzurro, e poi, nella seconda frazione, la difesa, schierandosi da libero e divenendo una delle mosse vincenti che mister Bigon riuscì ad attuare. Dopo il vantaggio iniziale di Comi con un colpo di testa, lasciato inspiegabilmente solo dalla retroguardia azzurra, la Roma sfiora più volte la seconda rete, come detto con Giannini, ma anche con Rizzitelli, privo di rapidità nel ribattere una respinta della difesa partenopea, sempre più in balia dell’avversario e bisognosa di un riassetto che, con Fusi, troverà la giusta posizione in campo. Nel frattempo, cominciano a volare “botte da orbi” in campo, nessuno si tira dietro, neanche Diego, e si dà il via ad una serie di colpi proibiti che faranno del match una parabola in vertiginosa ascesa per quanto riguarda l’agonismo in campo, corrisposto a quello sugli spalti.

Nella ripresa, dopo la strigliata di Bigon, i ragazzi azzurri provano una timida reazione, con qualche calcio da fermo e con alcuni innesti che ravvivano la manovra, uno su tutti l’ingresso di Mauro che sostituisce uno spento Crippa, L’equilibrio è ciò che mancava alla squadra, e con un nuovo scacchiere riposizionato, il verbo partenopeo comincia nuovamente a distribuire perle di saggezza, non ultimo l’ingresso in area di rigore di Baroni, che, da pura “iena dell’area di rigore”, si porta in avanti il pallone di petto e costringe l’ingenuo Desideri a commettere il più classico dei falli da penalty. Il quanto mai antagonista Maradona pone la sua firma sul pareggio azzurro, che sancirà anche la fine delle velleità gialllorosse che, anzi, per un pelo non vengono soggiogate n maniera truffaldina dal piedino di Careca che ha il difetto di farsi fermare all’ultimo istante dal portiere Cervone, dopo aver ricevuto un assist da premio oscar dall’estro di un insolito Carnevale in stile “Beckenbauer“.

A fine partita le squadre raccolgono i cocci di un match rude e ai limiti dell’agonismo, portandosi a casa acciaccati e squalificati, con la consapevolezza di aver data prova di forza e spirito di abnegazione, nonostante il dato di fatto palese di aver concesso un tempo per parte all’avversario. Ironico e diplomatico il presidente romanista Dino Viola, compianta figura di un calcio che necessita fortemente del carisma di elementi di questo calibro, al pari di Agnelli, di Rozzi, di Anconetani, insomma i presidenti “padri padroni” che hanno costruito dalle ceneri la storia del campionato italiano. Le immagini di un giovanissimo Galeazzi, quasi imbarazzato al cospetto del presidente giallorosso, mettono la firma ad un quadretto romantico e sentimentale del calcio che fu, in attesa del prossimo Roma-Napoli, venticinque anni dopo.

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