Tra una polemica e l’altra, spunta fuori pure quella del pallonaro antimafioso. Adesso, con tutto il rispetto di chi cerca di far passare tutti i messaggi ministeriali a mo’ di pubblicità progresso, con tutto il rispetto (mica tanto) per le circolari di stato che impongono a questo e a quello, si parla di burocrati, di affibbiare a Tizio e a Sempronio il ruolo di civil symbol delle lotte popolari, con tutto il rispetto (ma proprio poco) per chi vuole ancora convincerci che alla maggioranza (brutta parola) freghi ancora qualcosa della camorra, dei diritti umani e dei guai di spazi sconfinati quando non si conoscono nemmeno i condomini dove si abita per decenni, dopo tutti questi dovuti rispetti, davvero gli stessi qualcuno pensano che dalle nostre parti tutto questo possa fare impressione?
Dirò di più. Tranne che per una minoranza non bene identificata, per il resto importa poco e nulla. Perché? Una Treccani non basterebbe. Prima di tutto, la gente è stanca di questa militanza che ha il sapore del fenomeno di costume, di questi registri dei benpensanti che sfoderano sempre le stesse dichiarazioni, che hanno costruito (glielo hanno lasciato fare) edifici di ipocrisia su cliché e luoghi comuni, di questa antimafia che in fondo da chi viene frequentata? Da chi ne ha a cuore le sorti, e, ve lo garantisco, sono davvero pochi, oppure dagli occasionali che firmano il registro di cui sopra come si fa quando si va a fare visita al defunto.
Sia chiaro, non voglio disfare niente. Tutto il contrario. Vorrei soltanto sottolineare che se a qualcuno importa poco della Terra dei fuochi, della camorra, se qualcuno ci tiene a specificare di non sentirsi simbolo di niente di tutto questo, non c’è da scandalizzarsi, e non soltanto perché quel qualcuno vive di sensazioni e superficialità (azzardiamo), ma perché i primi a fregarsene siamo noi napoletani, campani, meridionali.
Ma se mezza popolazione fa la corsa a chi deve ingraziarseli di più, i delinquenti, che non sono soltanto i camorristi “riconosciuti”, i politici corrotti, i prestigiatori dell’intrallazzo che oggi si battono il petto davanti a chissà quali commemorazioni, e il giorno dopo organizzano tavole imbandite di misfatti a braccetto dei camorristi.
Se tanta gente pensa che siano altre le cose che contano (liberi di farlo), e non perché lo dichiarino apertamente (magari), ma perché si comportano come se certe cose contassero poco e niente, allora diventa solo fase di polvere mediatica la polemica sull’ipotetica insensibilità altrui. C’è una cosa che non bisogna dimenticare, sebbene la “Treccani” immaginaria imponga dell’altro. Il sistema dialettico deve delle scuse a chi invece certe cose le considera davvero serie, e senza clamori dimostra in silenzio di averle a cuore. E non mi riferisco soltanto a quelli che rientrano nel grande e trascorso scontato dei fatti umani, ma a quelli che ne fanno parte senza saperlo.
Chi sono? Sono quelle persone che per una vita intera a certe faccende non hanno nemmeno potuto far caso, perché a questo sistema di chiacchieroni nullafacenti hanno dato da mangiare e da dormire, che a queste generazioni senza anagrafe hanno concesso il lusso del tempo in abbondanza e dell’ozio a buon mercato. E sapete perché lo penso? Non per la solita facile e prevedibile retorica, ma solo perché a quelle persone (erano, poche ancora sono) certi privilegi non erano concessi, e il peccato è stato che non se ne sono nemmeno resi conto. Hanno vissuto la loro vita così, col sorriso nascosto e la rassegnazione felice di chi ha avuto l’onere del sacrificio senza meriti e riconoscenze. Se provate a chiederlo a loro, cosa sta succedendo, abbozzeranno una flebile reazione. Se ne sono rimasti, scovateli. Quelli sono i simboli di molte cose.
Sebastiano Di Paolo, alias Elio Goka