Enrico Quaranta è un batterista napoletano. La sua esperienza musicale lo ha condotto a suonare con tanti artisti di fama nazionale e internazionale. Dopo diversi progetti musicali da lui stesso fondati, è entrato nella band di Enzo Avitabile, per poi iniziare collaborazioni con Loredana Bertè, Enzo Gragnaniello, James Senese e Tony Esposito. Nel 2012 Enrico si trasferisce a New York, dove entra in contatto con i più grandi jazzisti statunitensi. Tra questi, conosce Jeremy Pelt, noto trombettista newyorkese, col quale sta condividendo una nuova produzione.
Enrico, nella sua musica compare spesso la parola Africa. Cosa significa per lei questa parola?
Significa percussività. La batteria è uno strumento a percussione e come tale mi ricorda i tam tam dell’Africa tribale, di quello strumento che una volta era una maniera di comunicare. Per me la batteria è questo. Io la suono così, cercando di sfuggire ai canoni più diffusi, interpretandola nel suo significato più primordiale.
Lei ha suonato con grandi artisti e adesso è in corso un’importante collaborazione con Jeremy Pelt, uno tra i trombettisti più apprezzati a New York. Per lei la musica è stata motivo di viaggio, in spostamenti che l’hanno condotta fino agli U.S.A. preferisce farsi guidare dalla musica o portarla in giro?
È prima di tutto dovere di un artista portare in giro la sua musica, almeno per me. Negli Stati Uniti ci sono andato per avere delle conferme, come un sopralluogo. In Italia il jazz è indietro di quarant’anni. Si ha una visione troppo tradizionale, che non si è accorta di quanto il jazz sia cambiato, talvolta sventrandosi, aprendosi il più possibile a nuove sperimentazioni. E negli Stati Uniti ci sono andato per questo, per capire fino in fondo come stesse cambiando il jazz, così da poter meglio adeguare la mia musica a questo cambiamento. Ho conosciuto, presentatomi dal mio caro amico Peppe Merolla (drummer), Jeremy Pelt allo Smoke, un locale americano. Lì ho avuto modo di entrare in contatto con lui e con altri artisti. E così ho avuto l’opportunità di registrare con lui due brani nuovi e di iniziare a lavorare a un progetto musicale non ancora compiuto.
Può dirci qualcosa su questo nuovo progetto?
Il contenuto dell’album sarà la descrizione di un cammino basato sull’arricchimento del mondo jazz newyorkese. Un album che rappresenta la soluzione di continuità alla mia esperienza statunitense. Una cosa che mi appartiene, come la musica che suono, e non potrebbe essere altrimenti.
Pensa che nella musica si possa sempre creare qualcosa? O esiste un limite verso il quale si tende? Almeno questo è il sospetto di molti.
Si può sempre fare qualcosa di nuovo. Anche quando sembra più difficile. La chiave di tutto è la ricerca, che nella musica deve fare i conti con un’arte che ha del divinatorio. La musica non si spiega, non è possibile avere un riferimento precostituito, un laboratorio fisso in cui pensare di poterla fermare e renderla un linguaggio comune a tutti. La musica è spiritualità, è un’energia cosmica, che si sente, e non è così semplice farla sentire. Ma senza sacrificio e capacità di ricerca, allora è tutto più difficile.
Lei ha detto che il jazz in Italia è indietro di molto anni. Perché?
Adesso non vorrei attirarmi le antipatie di qualcuno, ma penso che in Italia il jazz, come molte altre espressioni musicali, sia stato burocratizzato. Per il jazz, poi, il discorso è molto particolare, perché si ha a che fare con un registro musicale diverso da quelli più comunemente fruibili al grande pubblico. Non si può burocratizzare l’arte, ancor meno il jazz. Duke Ellington diceva “c’è la musica e c’è dell’altro”. Può sembrare un assurdo, ma il jazz affonda le sue radici nella musica classica. Bach è stato un jazzista. Noi prima abbiamo parlato dell’Africa. Ecco, l’Africa come origine, la musica classica come origine. Io spero che in Italia la situazione cambi. È avvilente vedere che ci sono tanti giovani musicisti talentuosi muoversi costretti dentro le regole fisse di una discografia che in generale vuole che il jazz diventi gestibile come un normale prodotto commerciale. Non può essere così. Il jazz è un’altra cosa. Posso comprenderlo, fino a un certo punto, per il pop, che deve rispondere pure a canoni commerciali, ma mai per il jazz. È come commercializzare la musica classica, l’essenza della musica. Vorrei che il mondo della musica, dell’arte, si liberassero di questa gestione quasi politica, burocratica di alcuni discografici, che non consentono all’artista di muoversi liberamente, costringendolo a snaturarsi in continuazione. La gente che ti ascolta, capisce benissimo se stai facendo qualcosa di originale, e comprende pure quando stai facendo musica perché va fatta così, a differenza di quando la fai perché sei tu a volerla fare così. Spero nella libertà di espressione della musica. Non sarebbe così pericoloso concederla, liberando l’artista dalle costrizioni discografiche. Risulta davvero avvilente quando ci si accorge che stai ascoltando un musicista che suona il jazz perché va suonato così, spesso producendo un mood che si ripete di volta in volta, facendo diventare il jazz una cosa che è uguale ovunque si suoni.
Per Enrico Quaranta la musica è un sentimento religioso. L’arte ha una funzione spirituale, laddove la salvaguardia delle origini consente il passaggio della modernità. I musicisti jazz tendono a sorvolare su ogni genere di definizione. Enrico Quaranta definisce soltanto la necessità di compiere al meglio il suo sentimento musicale.
La redazione di Spazio Napoli lo ringrazia per questa intervista.
Sebastiano Di Paolo, alias Elio Goka