Il calcio dispone del suo contraltare infernale. Il pallone ha un doppiofondo di sventure e di miserie. Come una cosa che vuole a tutti i costi imitare la vita, anche il calcio conserva nel suo impianto un soppalco abitato da demoni e da streghe.
Se come disciplina, come manifestazione umana, come espressione poetica, il pallone riesce a diventare spesso strumento di salvezza, allo stesso modo può diventare ragione di sconforto, persino di dolore, facendosi ingresso per le più provanti esperienze umane.
Se più di un secolo fa il calcio nacque come un gioco, nel corso degli anni ha aperto poco a poco la sua finestra di serietà. Affacciarvisi vuol dire scoprire storie estreme, aneddoti della parte peggiore della vita, fino alla composizione massima che ha convinto la storia a considerare questo sport una cosa che non è solo uno sport.
Se le storie dei singoli dolori privati, di personaggi come Meroni, Di Bartolomei, Paolo Barison, Iacovone, solo per citarne alcuni, si fanno campionario di esempi singolari dei frastuoni più intimi e insopportabili delle vicende umane, le storie di Sindelar, di Arpad Weisz, di Valletti e di Brevedan, sono la testimonianza silenziosa del dissolvimento di talenti perduti in mezzo alle grandi tragedie, di come la crudeltà della vita abbia privato il calcio di grandi campioni, proiettando questa privazione su vasta scala, facendoci pensare che la guerra, le deportazioni, finanche le tragedie mai raccontate, potrebbero averci sottratto l’opportunità di godere di talenti che non hanno mai avuto l’occasione della ribalta, e che forse sarebbero stati più grandi di quelli che abbiamo conosciuto.
Diverse le esperienze di personaggi come Eigendorf, che hanno attraversato il mistero dei misfatti politici, sospettati martiri della rappresaglia di regime. Ancora diverse le vicende dell’Heyesel, o dello stadio Luzhinki e del Ballarin, per citarne alcune, che hanno testimoniato l’incuria e la disattenzione sovrapposta alla violenza del tifo.
Tutto fino ad arrivare ai crimini commessi anche attraverso il pallone, usato come strumento di copertura e di propaganda politici dai regimi di Franco, di Mussolini, di Hitler, di Videla, di Pinochet, che hanno popolato gli stadi riempiendoli di sottomissione e di paure, di torture e di esecuzioni.
Anche le disgrazie, anche le sciagure sono intervenute a modificare la storia del calcio, distruggendo in attimo i prodigi sportivi del grane Torino, del Manchester anni ’50, o della nazionale dello Zambia.
Il calcio si è anche colpevolizzato, nell’ipotesi di portarsi ancora addosso le responsabilità per centinaia di ex calciatori morti per tumori legati all’uso di sostanze stupefacenti, a scopo dopante, nell’attraversamento lento e incontrollato di quell’evoluzione atletica che in certi periodi ha sfiorato i toni estremi dell’eugenetica. Pure la ricerca della perfezione ha causato il dolore, una lezione che l’uomo non ha mai imparato, nonostante la storia gliene abbia dato più volte l’occasione, attraverso le più provanti esperienze.
Forse il calcio vorrebbe essere lasciato lì, a crescere da solo, senza formule di ringiovanimento, che oggi, attraverso altre dissoluzioni, lo stanno poco a poco trasformando in un burocrate viziato e poco gradito.
Sebastiano Di Paolo, alias Elio Goka