Mettete una notte al San Paolo. Mettete una semifinale di Coppa Italia in cui si deve solo vincere. Mettetela contro la Roma, che ci precede in campionato e che quest’anno è stata battuta solo dalla Juventus. Mettete un mercoledì da leoni che mancava dalla Champions, anche se con toni meno internazionali e meno prestigiosi, ma più consapevoli e a portata di mano. Mettete una Roma che fa polemica sul giorno in più di riposo e su Reina che ne ha presi già cinque. Il tutto, pensatelo con l’accento francese.
Mettete che arrivo allo stadio e, nonostante il buco nero che avvolge il San Paolo e che non ti fa avere più linea, neanche se sei una 42, mi arriva un messaggio di mio padre che mi annuncia : “Debby, pare che Maradona sia a Napoli e forse anche allo stadio”. E quindi, metteteci gli occhi sgranati, una primissima esclamazione del tipo “Uah!” e un secondissimo pensiero negativo del tipo: “Era anche a Roma-Napoli di campionato!”. Ma subito smentito da un amico super ottimista: “No no, quando c’è lui allo stadio vince la squadra di casa 2-0”. Beh, ci è andato vicino.
Mettete che mentre lo stadio si riempie piano piano, noi già cantiamo con chi era con noi in trasferta, come se fosse un prolungamento della partita di andata. E, in effetti, lo era. Alla faccia della notizia, per fortuna non vera, di uno sciopero per 45 minuti della curva B. Tifosi che non tifano sono l’antitesi del calcio. Un po’ come i giocatori che non giocano. O l’allenatore che non allena. O l’arbitro che non arbitra. O il massaggiatore che non massaggia. O Callejon e Higuain che non segnano. Contro natura!
Mettete che giochiamo di nuovo in maglia gialla. Come le nuvole di questi ultimi dieci giorni, ci hanno rubato l’azzurro anche in campo. Ma noi lo custodiamo dentro, pronti a farlo esplodere al momento giusto. Sarà un caso che oggi il cielo è più limpido che mai? Poi, mettete che la Roma comincia bene, ma anche che noi teniamo. Perfino Fernandez tiene. Reina compie un piccolo miracolo. Gli spalti sono freddini inizialmente, ma dopo il megafallo da espulsione su Mertens, ci svegliamo e ci solleviamo in difesa del nostro gioiellino. Quando ci toccano il cuore, noi reagiamo sempre. E allora, metteteci pure che il giallo doveva essere un rosso e allora il San Paolo s’infiamma, com’era giusto che fosse. E allora, calcio show. Non ne riesco a trovare uno da sufficienza, tutti al di sopra. Mettete, insomma, tanta roba. L’incredulità sul cross di Maggio, rievocato in seduta spiritica più e più volte. Stavolta non va di sponda, non va in curva, non va nelle mani del portiere. Va in porta grazie alla testa di Callejon. Un goal da centravanti puro. Poi fa anche il terzino, poi fa il centrocampista, poi fa il trequartista, poi fa il difensore. Poi nell’intervallo, con la vesparella parcheggiata fuori, ha portato le pizze e i crocchè a mammà a san Giovanni a Teduccio ed è tornato giusto in tempo per dialogare sotto porta con quell’altro mostro sacro di Higuain. Davanti a un De Sanctis che, in quell’occasione il miracolo lo fa, ma che è tornato ad essere il portiere del Subbuteo che tutti conoscevamo. A dieci centimetri dalla porta e rare incursioni fuori dai pali. Higuain. Già. Higuain. Un vero argentino non gioca a Torino. E soprattutto segna davanti ad un altro argentino. Non uno qualsiasi. Se Garcia ha messo la chiesa al centro del villaggio, noi abbiamo fatto meglio. Abbiamo messo D10S sugli spalti. Al centro del villaggio, invece, ci abbiamo messo l’animazione, con un calcio da puro divertimento. Ecco che arriva il terzo goal con un Mertens che non guarda in faccia a nessuno, fa’ quello che vuole, salta gli avversari e s’inventa un assist per un Giorgino in versione Hamsik. De Sanctis può solo sbarrare gli occhi del tipo: “Ma aro’ cavol’ è uscito questo?” e prendere il terzo. Così pareggia i goal presi da Reina, ma i suoi sono più pesanti. Con buona pace del francese.
Mettete che nell’esultanza di uno dei tre goal, mi sono ritrovata quattro file sopra con un’agilità che non avevo dai tempi del girello, in più qualcuno mi ha colpito sul sopracciglio, ritrovandomelo gonfio. E aggiungete che me ne sono accorta solo una volta arrivata all’auto dopo la partita. Con ancora in testa le battute ascoltate, al cartellino di Strootman. Sempre il francese, che, spero, abbia capito di dover parlare di meno e allenare di più, lo aveva definito una “lavatrice”. E adesso, chiudete gli occhi, e immaginate per tre, numero a caso, secondi, dalla curva, cosa abbiano potuto suggerire di lavare. E anche a quanti gradi. Fantasia partenopea. E apoteosi da chi aveva un piede in finale, anche se la scaramanzia ci ha fatto abbracciare contenti solo al triplice fischio.
Ecco. Adesso mettete tutte queste cose insieme. Uniteli al ricordo di una bimbetta dai capelli ramati, a sei anni, in curva A già da due, accanto a suo padre, alta tanto da non vedere nulla o quasi in campo, ma abbastanza da vedere le gioie e le tensioni di chi le era intorno, affascinata dal colore azzurro dei fumogeni, dagli altoparlanti che gridavano “Uditok”, dal Borghetti che tutti bevevano e che non vedeva l’ora di assaggiare, un giorno, anche lei. Uniteli ai cori assordanti, che ripeteva meglio della poesia di Natale a scuola, inneggianti il vero dio che possiamo toccare con mano. Mettete quegli stessi cori, ieri sera. Con la bimbetta un po’ più alta, coi capelli sempre ramati, stavolta in curva B, con una nuova famiglia intorno con cui condivide gioie e tensioni, e con lo sguardo rivolto in tribuna. Lì sta esultando con lei l’unico dio che possiamo toccare con mano e che l’ha accompagnata per anni allo stadio, nei sogni e nei sogni che diventano realtà.
Insomma, mettete tutto sto ben di Dio insieme e, scommetto sul capello alla Nino D’Angelo di Henrique, che sul vostro volto si sta disegnando in questo momento lo stesso sorriso felice con cui mi sono svegliata io stamattina. E adesso, forza! Fatemi scrivere di nuovo di una finale vinta all’Olimpico.