Un Porto dal quale non abbiamo mai salpato. Analisi sui 180 minuti

Venerdì 21 marzo 2014, il day after. Mentre leggerete queste righe a Nyon si starà svolgendo il sorteggio dei quarti di finale di Europa League. La strada verso Torino e la finale della seconda competizione internazionale per club più famosa del mondo è tracciata, le date certe, le sfide stanno nascendo in questi minuti.

Az Alkmaar, Benfica, Juventus, Valencia, Lione, Basilea, Porto, Siviglia. Queste le migliori otto, la legge del campo non perdona. A spulciare i nomi che si scontreranno nel prossimo turno c’è da rimanerci ancora più male, ti sale il magone e ti chiedi il perché i colori azzurri si siano fermati così prematuramente. Cosa abbiamo sbagliato, dove siamo stati inferiori agli altri qualora davvero fosse così.

Siamo usciti a testa alta dicono tutti. La carta stampata e gli innumerevoli siti online si affastellano nel definirla una sconfitta immeritata, per quello visto sui 180 minuti, sia ad Oporto che ieri al San Paolo. Usciamo a testa alta come siamo usciti a testa alta dalla Champions, con 12 punti racimolati in un girone di ferro, il girone della morte. Usciremo anche a testa alta, ma sfido chiunque a non voler vedere oggi da quelle diaboliche palline da svitare uscire il nome della SSC Napoli . Alta o non alta che sia la testa, siamo usciti ancora una volta, la delusione patita in Champions e le lacrime del Pipita non ci hanno poi insegnato granché.

Partendo dalla fine e dagli applausi di ieri sera all’uscita dal campo degli azzurri, ci sono da avvolgere 180 minuti, secondo per secondo per comprendere a fondo i perché di questa sconfitta. Applausi dicevamo, quegli applausi che ieri sera Gonzalo Higuain non ha esitato a sottolineare, quegli applausi dovuti, voluti, sentiti ma pur sempre applausi di commiato per un Napoli sì sfortunato, sì bello a tratti ma in ogni caso sconfitto.

La sfida di ieri sera al San Paolo ci insegna ancora una volta come il calcio sia tremendamente incontrollabile. Non bastano tatticismi e schemi, corsa e grinta, tecnica e velocità se poi sistematicamente non la butti dentro, spesso da zero metri. Benitez docet.

Il Porto non ci è sembrato poi granché e non ci meraviglieremmo se al prossimo turno faccia le valigie ed abbandoni certi palcoscenici. Un Napoli padrone del campo, che corre, lotta, sbuffa ed arranca alle volte. Un Napoli capace di collezionare tredici calci d’angolo come se alla fine contasse qualcosa, conditi da 25 tiri in porta totali (contro gli 8 dei lusitani). Ghilas alla prima ed unica occasione ci ha puniti. Game, set, match; tutto quello che succede dopo serve a riempire le statistiche.

Sfortuna? E’ veramente solo quella la motivazione della sconfitta? Non è poi da eterni perdenti appellarsi alla Dea bendata? La fortuna aiuta gli audaci e si potrebbero sciolinare proverbi e detti popolari a menadito. Napoli solo sfortunato o anche incapace di capitalizzare? Poco cinico, spesso non concreto, fumoso.

L’andata ad Oporto è stata la perfetta antitesi della gara di ieri. Porto che fa la partita, che attacca che chiude il Napoli nella propria area. Il risultato finale è che però loro segnano (per giunta nel nostro momento migliore) con quel Jackson Martinez tanto agognato. Noi al solito sprechiamo almeno tre palle gol e rischiamo di prenderne un altro (palo di Quintero).

Sfortuna o non sfortuna? Sfogliando la margherita delle possibilità sentiamo di poter credere che ci siano anche altre motivazioni dietro l’uscita dall’Europa. Un primo tempo troppo arrendevole in Portogallo, l’assenza di Jorginho per scelte condivisibili in sede di compilazione di lista Uefa. Non che l’italo-brasiliano sia giocatore indispensabile, ma la linea Behrami-Henrique dell’andata la ricordiamo ancora, non con piacere. Una rosa chiaramente incompleta (evidenza nota sin dall’inizio della stagione) tanto da costringere Rafa a schierare giocatori in ruoli non propriamente cucitigli addosso (vedi Henrique).

Usciamo più per demeriti nostri che per meriti avversari. Questa non si chiama sfortuna, questo non è già scritto o dovuto al fato. Queste sono le basi sulle quali ripartire per i prossimi traguardi, se è vero che dalle più grandi sconfitte si fondano le basi per i nuovi successi. La sconfitta e l’eliminazione di ieri devono essere un fertile terreno sul quale piantare i semi del successo. Imparando dagli errori, dei giocatori sul campo, dei dirigenti dietro la scrivania, della squadra tecnica a bordo campo.

(Antonio Picarelli)

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