Sarebbe legittimo pensare che un popolo come quello napoletano avesse scelto minuziosamente dall’enorme archivio storico della canzone classica napoletana quelle note assimilate con le parole che calzassero a pennello per la causa azzurra, un coro simbolo che fosse la carta d’identità della gente di Napoli, cittadini del mondo. Ed invece, come le tante storie romantiche che s’intrecciano nel cammino calcistico partenopeo, la scelta della canzone che riconosce i napoletani del globo ha radici pressoché spontanee, dettate dal cuore, senza programmi o selezioni studiate a tavolino. Successe tutto nel lontano 7 dicembre del 1975 allo stadio Olimpico di Roma, durante un Lazio-Napoli che ha probabilmente determinato un passaggio fondamentale che da lì a qualche decennio sarebbe sfociato nella prima affermazione di uno società in cui il mezzogiorno d’Italia aveva bisogno di riconoscersi. L’antefatto di quel match si rispecchiava nella delusione della stagione precedente, uno scudetto perso dagli azzurri a Torino contro la Juve di “core ngrato” Altafini che punì il Napoli a due minuti dalla fine, dopo che sull’1-1 più volte si sfiorò il gol della vittoria che avrebbe portato i napoletani a pari punti con i bianconeri in un rush finale che si sarebbe deciso sul filo del rasoio in una battaglia di nervi senza esclusione di colpi, ma che fu invece deciso dall’emblema del tradimento, quel Josè ceduto alla Juve assieme a Zoff, figli di un’era austera che avrebbe forse meritato miglior sorte.
A Roma il Napoli continuava a puntare al primo posto così come l’anno precedente, e sfruttando il derby tra Toro e Juve che si giocava in contemporanea, si candidò nuovamente al primato, considerando che la sconfitta bianconera e la vittoria sulla Lazio di Maestrelli significava prima piazza in solitario. Pronti via e il Napoli non si fa irretire dalla tensione, pochi attimi ed è subito vantaggio, Boccolini, il tuttofare della fascia laterale mette il pallone nel sacco spingendo al delirio i trentamila accorsi all’Olimpico quel giorno, una vera e propria migrazione di un popolo che sentiva il bisogno di contribuire in maniera fattiva al primo miracolo tricolore che era nell’aria, se ne sentiva il profumo, sembrava oramai non più un miraggio ma una piacevole oasi nel deserto degli anni precedenti, aridi di vittorie, bruciati da cocenti delusioni e pochi momenti di giubilo. Le notizie che arrivavano da Torino alzavano la temperatura di Roma, Graziani e Pulici punivano la Juve di Mister Parola, l’uomo della rovesciata della Panini, il primato era raggiunto se la squadra di Vinicio avesse mantenuto l’1-0, la Lazio però gongolava il pari con i suoi uomini, Chinaglia su tutti, ma anche D’Amico e Wilson, insomma la corazzata che qualche anno prima aveva cucito il tricolore sul petto sotto l’aquila biancoceleste. A sostegno della causa azzurra arrivò un coro unanime dagli spalti, i napoletani d’improvviso intonarono un canto mai sentito prima, è una strofa tratta dalla canzone “O’ surdato nnammurato“, di cui ritornello conquistò subito il cuore di tutti coloro i quali udirono i sentimenti espressi da quella canzone che alzava al cielo l’ode verso il primo e ultimo amore, quella “vita mia” che era una squadra simbolo della città bisognosa di passione e di vittorie.
Il miracolo funzionò, il Napoli vinse la battaglia e conquistò il primo posto tra l’euforia generale, testimoniata anche dai giornali, uno su tutti, “Lo Sport del Mezzogiorno”, il settimanale diretto da Riccardo Cassero, scrisse in prima pagina il ritornello “Oj vita, oj vita mia” con tanto di pentagramma racimolato pochi minuti prima di pubblicare l’articolo, insomma quasi un vademecum su come intonare quello che da lì a poco sarebbe stato definitivamente battezzato come il coro dei tifosi del Napoli. Boccolini riuscì ad avere il pallone di quella vittoria a Roma. Raccontò che, dopo la partita, aveva espresso il desiderio di averlo. I giornali riportarono il suo desiderio. Il pallone, dopo il gol, era stato calciato in tribuna da Boccolini in segno di giubilo ed era stato “catturato” da un gruppo di tifosi napoletani. Lo avevano preso, senza rimandarlo in campo, i tifosi del “Club Leo Clan” di Sant’Antimo. Il presidente Mimmo Chiariello invitò Boccolini a visitare il club e gli regalò il pallone in cambio di un “qualsiasi” pallone autografato da Boccolini.
Non si vinse il tricolore nemmeno quell’anno, ci si accontentò della coppa Italia, assieme con la consapevolezza di aver trovato ispirazione nelle parole di una canzone che riconosce i partenopei negli stadi, spesso scudo e corazza verso soprusi e cattiverie gratuite, talvolta palliativo, quasi sempre sedativo di una realtà amara, ma anche orgoglio e senso di dignità di cui non tutti possono fregiarsi. Cosa volete, si vive soprattutto di queste piccole emozioni, o quantomeno un tempo era così…
Ecco le immagini di repertorio di quella giornata splendida: