Calcio in crisi: meno spettatori e più debiti, ma il Napoli non ne risente

La crisi, per fortuna, non sfiora il Napoli. Risultati non sempre brillanti, un altalenante rendimento che non ha consentito agli azzurri di tenere il passo della Juve e della Roma in campionato. Ma gli altri numeri sono eccellenti perché da sette anni il bilancio della Ssc Napoli è in attivo e perché l’affluenza di spettatori al San Paolo è regolarissima: a volte è il richiamo della partita, altre la politica dei prezzi contenuti.

Il mondo del calcio non sta altrettanto bene, come evidenzia il Report 2014, presentato ieri a Roma dal presidente della Federcalcio, Giancarlo Abete, dal componente del Direttivo dell’Arel, Giulio Napolitano, docente universitario e figlio del Capo dello Stato, e dal partner financial services di PricewaterhouseCoopers, Emanuele Grasso.
In 208 pagine viene analizzato lo stato di salute del calcio in base alle indicazioni della stagione 2012-2013. È vero che è cresciuto il valore di produzione del settore professionistico (2.696 milioni di euro, +1,3 per cento rispetto alla precedente stagione), ma ci sono due dati allarmanti: i debiti sono saliti fino a 2.947 milioni e c’è stato un calo di 900mila spettatori, da 13,2 milioni a 12,3.

Il raffronto con gli altri prestigiosi campionati stranieri è imbarazzante: nella scorsa stagione c’è stata una media di 22.591 spettatori negli stadi italiani, superiore soltanto alla Ligue 1 francese (19.211). Il record è quello della Bundesliga (42.624): in Germania non c’è stata soltanto un’ulteriore crescita tecnica, testimoniata dalla finale tutta tedesca di Champions League Borussia Dortmund-Bayern Monaco, ma soprattutto un lavoro per migliorare gli stadi. Sotto questo aspetto l’Italia è indietro: ci sono strutture costruite oltre sessant’anni fa (il San Paolo è stato edificato nel dicembre 1959). Ovviamente scendono i ricavi, biglietti e abbonamenti in calo rispetto agli anni scorsi e non solo per l’effetto delle tv. D’altra parte, se non ci fossero i milioni di Sky e Mediaset il calcio crollerebbe. La cessione dei diritti televisivi e le plusvalenze da cessione di calciatori costituiscono il 58 per cento del valore di produzione del sistema: un miliardo arriva dalle tv e 536 milioni dalla vendita di giocatori cresciuti nel vivaio o acquistati a un prezzo inferiore. Il calcio italiano cerca di andare avanti attraverso i contratti televisivi e le operazioni di mercato: nelle ultime due stagioni si sono registrati 2.533 trasferimenti, per un valore pari a un miliardo e 836mila euro. Ma molti passaggi sono prestiti. «C’è qualche difficoltà, è evidente», ha commentato il presidente Abete. Il presidente del Coni, Giovanni Malagò, è rimasto sorpreso da questi dati: «È indecente che la percentuale da ricavi da stadio sia dell’8 per cento, tra un po’ rischiamo di arrivare a zero. Bisogna arrivare al 25-30 per cento». Ma non è facile.
Il valore di produzione del calcio professionistico è salito a 2.696 milioni, +1,3 per cento, mentre il costo di produzione è sceso a 2.972 milioni, -1,5 per cento, grazie alla riduzione del costo del lavoro. Abete ha sottolineato un altro aspetto: «Negli ultimi sei anni abbiamo recuperato attraverso il Coni 480 milioni dei sei miliardi che solo il calcio professionistico ha dato al Paese. Sei miliardi in sei anni, siamo al secondo posto sotto l’aspetto della contribuzione, solo l’Inghilterra ha dato di più all’erario rispetto all’Italia».

Per ridurre l’indebitamento bisogna avviare una politica di snellimento delle società e infatti il sistema professionistico scenderà a 102 club dalla prossima stagione. «Ma la nostra dimensione rimane impegnativa, eccessiva rispetto ad altri Paesi che hanno meno club professionistici», ha evidenziato il presidente Abete. Opportuna la valutazione di Grasso della Pricewaterhousecoopers: «La crescita di produzione è dovuta a ricavi televisivi e plusvalenze, servono invece misure per garantire l’indipendenza del sistema». Sì, ma quando? E, soprattutto, come?

Fonte: Il Mattino

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