La Procura di Roma continua ad indagare ma è ancora poco chiaro ciò che è successo a Tor di Quinto…

Giustizia nel nome di Ciro Esposito. Giustizia e Verità, ma quelle con le consonanti veramente scritte in maiuscolo, perché non si può morire portandosi appresso la «colpa» di aver comprato un biglietto per andare a vedere la finale di Coppa Italia. Nient’altro che giustizia e verità. Al di là del bene – e soprattutto nel male- la voce che si leva è quella dalla mamma e dal papà del tifoso napoletano dichiarato clinicamente già morto ieri a Roma dopo 50 giorni di agonia scandita da bollettini medici che alternavano ottimismo a momenti di oscura premonizione per la tragedia che si sarebbe compiuta. Ferito a morte, sostiene già qualche voce fuori dal coro, per «odio etnico»: o forse solo per avere amato i colori della sua squadra di calcio. Follia assassina.

Ciro viveva a Scampia, uno dei tanti quartieri maledetti di Napoli: ma non per questo si era perso, come pure può capitare ai tanti figli della Malanapoli. E invece no. Ciro era riuscito a tenersi lontano dai quadrivi del malaffare, dalle piazze dello spaccio e della camorra cialtrona; lavorava, e onestamente si guadagnava uno stipendio in un autolavaggio. Aveva gli occhi buoni, una ragazza da amare e un futuro che il più maligno dei destini ha fatto naufragare quel pomeriggio del tre maggio scorso nei pressi del circolo «Ciak» di Tor di Quinto: lì, in quel posto, luogo noto a tutti per essere uno dei covi del tifo violento dei romanisti dove i napoletani in trasferta per assistere alla finale tra Fiorentina e Napoli mai e poi mai avrebbero dovuto confluire e dove, invece, per una scellerata omissione di qualcuno pure furono fatti arrivare per parcheggiare le loro auto.

Ma il passato è storia. E da oggi la vicenda, da tragedia
umana e familiare, si trasforma in freddo resoconto di cronaca giudiziaria. L’indagine condotta dalla Squadra mobile capitolina guidata da un poliziotto navigato come Nicola Cavaliere e coordinata dalla Procura romana dovrà cercare di dare risposte
concrete. La prima (e scontata) notizia è che nei confronti del presunto responsabile della morte di Esposito, l’ultrà giallorosso Daniele De Santis, il capo di accusa è passato da tentato omicidio a omicidio volontario. Per «Gastone» si spalancano i cancelli della Corte di Assise. Ma ancora tanti, troppi, restano i buchi neri nella ricostruzione di ciò che avvenne quel pomeriggio di quasi due mesi fa a Tor di Quinto. Non sono bastati 50 giorni per fare luce su quei fatti: e ancora ci si dà battaglia su un incidente probatorio che – stando alle norme del codice – dovrebbe svolgersi subito per «cristallizzare»
la scena del crimine; e che – invece – poco o nulla ancora ha cristallizzato.

Troppi, quei buchi neri che rischiano oggi di far naufragare questa
inchiesta. Prima domanda: quante persone, oltre a De Santis,
erano presenti nel momento in cui scattò l’agguato ai danni dei tifosi napoletani nei pressi del Ciak? Nella zona non ci sono telecamere di videosorveglianza stradale, il che non aiuta; ma da alcuni filmati amatoriali acquisiti dalla magistratura inquirente si vede chiaramente che «Gastone» non era da solo. E dunque, secondo interrogativo: qualcuno aveva pianificato il raid
contro i tifosi azzurri? C’era una strategia dietro i fatti che poi degenerarono nella sparatoria in cui rimasero feriti Ciro e un altro tifoso napoletano? Torniamo all’incidente probatorio: da Roma si apprende che il termine fissato per la consegna dei risultati è quello di settembre. Tanto, anzi troppo. Meglio ancora:
un termine sconsiderato, tanto più che adesso c’è di mezzo un ragazzo che i medici hanno dichiarato clinicamente morto.

La Procura di Roma, e questa è un’altra notizia, avrebbe da tempo identificato i componenti del commando che spalleggiò De Santis nell’agguato (perché di agguato si trattò): si tratterebbe di un pugno di manigoldi che, all’indomani dei gravissimi fatti che fecero da preludio alla finalissima di Coppa Italia, prepararono gli striscioni in difesa dello stesso De Santis, comparsi durante la successiva partita di campionato (Roma-Juventus). Gli accertamenti degli investigatori si concentrarono anche sugli occupanti di una jeep bianca che compare in un paio di video nel vialetto dove avvenne la sparatoria. Terza domanda: chi gettò in un cassonetto dei rifiuti la pistola con la quale qualcuno (De Santis?) fece fuoco ferendo i due napoletani? E perché lo fece? Raccontano i bene informati che in quella stessa zona erano soliti radunarsi non solo certi capi ultrà della Roma, ma anche personaggi poco raccomandabili ben noti alla Digos della Questura di Roma per essere ritenuti vicini agli ambienti dell’estremismo neofascista. E, si sa, oggi lo sport sta alle curve da stadio come le bombe alle stragi di piazza Fontana e piazza della Loggia.

Si scavi in fondo. Si indaghi senza remore. A chiederlo non è solo
la giustizia degli uomini, ma – e ci verrebbe di dire, soprattutto -quella di una madre e di un padre che da oggi non si daranno più pace sapendo che il loro figlio non tornerà più a casa. E che se n’è andato per sempre un giorno: solo per essere andato a tifare per la propria squadra, una sera del 2014 in cui si giocava la
finale di Coppa Italia.

FONTE Il Mattino

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