Furto musicale voluto e perpetuato, ci scuserà il grande Pino Daniele, ma il titolo rubato ad un suo famoso album era troppo invitante per non usurparne le etimologie intrinseche in esse, perché il personaggio che lo ha suggerito appartiene ad un pianeta dove le parole comuni non attecchiscono, c’è bisogno di inventarsi qualcosa. No, non certo per esaltare le righe di un articolo commemorativo, o per impreziosire il già inestimabile valore di una storia divenuta leggenda, ma solo e soltanto perché ciò che è successo a Napoli grazie a Maradona ha nelle sue radici l’inverosimile, l’incomprensibile, l’inspiegabile e tutta una serie di parole che cominciano per “in” che ora non ci soggiungono, ma servirebbero anch’esse a delineare i tratti “extraterreni” di un evento sociale più che di un trasferimento di un grande campione, perché Diego, col suo avvento, ha cambiato i geni ad una popolazione, ha scritto i codici morali e d’orgoglio di milioni di napoletani, ha trasformato i simpatizzanti in accaniti tifosi, insomma ha aperto le transenne ad una rivoluzione sociale.
Era l’ultimo giorno di giugno del 1984 quando venne ufficializzato il suo affare, 13 miliardi nelle casse del Barcellona (pensate, appena 6,6 milioni di euro, l’attuale costo di un normale calciatore), si dice che Diego abbia firmato sul cofano di un auto all’aeroporto El Prat di Barcellona, dopo una trattativa estenuante, durata settimane, di giorno e di notte, con protagonisti Antonio Juliano, ds azzurro, Carlo Iuliano, direttore generale, Corrado Ferlaino, presidente azzurro, Jorge Cysterszpiller, agente del calciatore e la dirigenza blaugrana, continuamente tendente al rialzo del cartellino, sempre pronta a minare l’affare e a minacciare di venderlo ad altri, tutto contemplato nel gioco delle parti quando si tratta di fiutare il grande affare, il colpo ad effetto in grado di cambiarti la vita piuttosto che le sorti di qualche campionato.
Lo sbarco a Napoli avviene con qualche giorno di ritardo, del resto i grandi si lasciano desiderare, non per colpa sua e di una sua eventuale mania di protagonismo, soltanto perché la burocrazia metteva il piombo alle caviglie del pibe, non ultima un capriccio dell’Argentinos Junior sul transfer a causa di un contenzioso ancora aperto col Barca sul precedente pagamento nell’affare Diego. Il 5 luglio Napoli si ferma, il tempo sembra rallentato, nei giorni successivi all’annuncio tanti furono gli episodi di euforia per le strade della città, nei vicoli, nei quartieri bene e in quelli disagiati, tra le alte cariche della Napoli bene fino ai più disastrati e meno abbienti, tutti si unirono sotto l’onda di un acquisto destinato a cambiare le sorti di una città difficile e volenterosa di emergere come all’epoca Napoli era.
Si organizzò per l’evento una presentazione mai vista prima, con addirittura qualcuno che scommetteva su come Diego fosse arrivato, in elicottero, su di un panfilo, a cavallo di un elefante, in verità si temette soltanto per l’ordine pubblico dopo le scene di panico collettivo che videro protagonisti i napoletani, ecco così la decisione di aprire il San Paolo per l’occasione, vestirlo a festa e chiedere duemila lire come prezzo simbolico devoluto poi in beneficenza, ed allora il popolo ricevette il suo tanto agognato saluto del campione, ottantamila anime corsero per dirgli “ciao” e per vedere qualche palleggio e poche parole in un italiano di primo acchito, la migliore testimonianza per toccare con mano di cosa era stato capace e cosa ancora lo attenderà da lì a sette anni. A Diego verrà chiesto (e lo si ottenne) di portare alta la bandiera della napoletanità e della fierezza di esserlo, gli si chiederà ( e lo si otterrà) di riferire agli altri quanto grande sia il cuore e l’amore di un partenopeo, gli si affibbierà la corona di testimone di lusso nella salvaguardia dei valori di una cultura imponente come quella napoletana, insomma svestito di pantaloncini e maglietta, Maradona sarà il simbolo della Napoli che vince.
L’intervista prima in una palestra sotterranea allo Stadio San Paolo a temperature improponibili contribuì a definire i contorni reali di un fenomeno che anche i giornalisti contemplarono alla perfezione, tutti ammassati tra di essi, sudati, disidratati e spossati dall’enormità di un evento che nessuno si sarebbe aspettato così estremo e al limite della reale comprensione umana. Restano gli aneddoti, le “chicche” in anteprima di testimoni, fatti nuovi che s’antepongono ai vecchi, novità mai raccontate prima, sta di fatto che in quei primi giorni di luglio di trent’anni fa la storia della città, non soltanto la parte sportiva, ha subito un profondo e radicale cambiamento, qualcuno era stato in grado di svegliare gli animi sopiti di milioni di persone che sembravano aver riconosciuto nel Pibe de oro “l’eletto” in grado di combattere il tiranno oppressore, le ingiustizia di una società, i clericalismi tendenti al nord, le malefatte interne di una camorra in pieno sviluppo, una classe politica sorda e lontana dalla verità, mass media ciechi e ubbidienti agli affari da tornaconto. Non più soltanto un calciatore, lui sarà per sempre leggenda.