Brasile docet, diremmo, per cercare di imparare una lezione che più che di calcio ha il dovere di insegnare a tutti il concetto dell’amor proprio, verso i propri colori ed il rispetto verso i milioni di appassionati. Ma quasi a tutte le squadre del pianeta (con proporzioni e dinamiche diverse, ovviamente) è capitato di dover subire una cocente sconfitta, una disfatta di proporzioni enormi, sempre restando in tema calcistico. Tali “débâcle” hanno poi fatto spesso rima con ribaltoni, cambiamenti tecnici oppure, semplicemente, hanno dato il là ad una necessaria svolta, positiva o negativa, di un’annata. Tenendo sempre un occhio in casa propria, non per farsi gli affari propri ma bensì per ovvi confini dettati dalla rubrica stessa, anche il Napoli è caduto a colpi di gol subiti a grappoli, per la verità più di una volta, mai che ci fosse una giustificazione plausibile per concedere agli azzurri l’alibi scagionante. La prima umiliante sconfitta dilagante gli azzurri la subirono lo stesso anno della nascita della società partenopea, nel campionato 1926-27, quando i partenopei avevano pochi mesi di vita e altrettanta mancanza di esperienza, avendo in squadra uomini che giocavano a certi livelli per la prima volta, e parliamo di calciatori come Favi, Innocenti, Pirandello, un giovanissimo Sallustro ed un allenatore semisconosciuto quale l’austriaco Skasa.
La Juve di allora era già una macchina perfetta, con uomini di valore avviati a vincere tanto e con estrema facilità a causa di una concorrenza non ancora all’altezza di mettere in difficoltà gli uomini di Violak, tra cui ricordiamo Vojak, che da lì a qualche anno approderà in azzurro, lo stesso tecnico, allora allenatore-giocatore (a cui verrà italianizzato il cognome in “Viola” per volerti fascisti) Combi, Munerati e Grabbi, quest’ultimo autore di una tripletta nel roboante 8-0 che i bianconeri inflissero al Napoli, una lezione tremenda per i neo-professionisti azzurri che si apprestavano timidamente ad un calcio per il momento ancora troppo professionale per loro. Fu proprio quell’avvenimento che fece adottare il simbolo del “ciuccio” come mascotte della squadra campana, visto che l’animale è solito arrancare ma resistere nonostante le batoste e gli sforzi immani, ed ecco la prima testimonianza del modo di essere dei napoletani, abili nell’estrapolare da una delusione concetti “profetici” al di la della più fervida immaginazione.
Senza andare a cercare di trasformare il nostro pezzo in un elenco delle più cocenti sconfitte azzurre della storia, ci preme portare in auge un’altra altrettanto sonora batosta che il Napoli subì a distanza di circa trent’anni dalla scoppola juventina, fu infatti nel 1959 che la porta azzurra fu “violentata” dall’ira degli avanti giallorossi romanisti, in una giornata di fine marzo che di primaverile non aveva proprio nulla, visto che pioggia e vento condizionarono la gara di Roma senza però con questo giustificare una “figuraccia” memorabile degli uomini di mister Amedeo Amadei, manco a farlo apposta indimenticabile bomber giallorosso di qualche anno prima. Ghiggia, Lojodice, Pestrin e Da Costa umiliarono gli azzurri con lo stesso risultato con cui i bianconeri liquidarono sommariamente gli azzurri nel ’27, 8-0, che se non fosse stato per le parate di Bugatti, a fine partita migliore in campo, e i pali che si opposero quattro volte ad altrettanti tentativi di arrotondare ancor di più il risultato, avrebbero sicuramente registrato un record di gol subiti in una partita di campionato che avrebbe fatto vergognare ancor di più la platea azzurra nei secoli dei secoli.
Quella gara partiva con presupposti favorevoli agli azzurri, la Roma aveva infatti appena cambiato tecnico, affidando il nuovo corso al mitico Gunnar Nordahl, che in pratica, nel giro di qualche giorno, fu in grado di portare in squadra una tale grinta e voglia di vincere da strapazzare i malcapitati partenopei, tre punti più in alto rispetto alla Roma, sicuri di poter approfittare della confusione che regnava nella capitale a seguito della mancanza di risultati dal gennaio dello stesso anno. Ultimo ad alzare bandiera bianca fu Vinicio, che nonostante la totale mancanza di assistenza da parte dei compagni ed il risultato già così rotondo dopo soli 20 minuti (4-0 al 21′) giocò l’intera gara col coltello tra i denti, cercando di salvare almeno l’onore, pur non riuscendo a segnare il gol della bandiera.
Due epoche diverse, due schiaffi dolorosi ma ricchi di insegnamento e significato, uscire sconfitti con un risultato mortificante spesso collima con la necessità di alzare la testa per non perdere la bussola, per restare sulla strada senza rischiare di finire ai margini, è questo che le grandi sconfitte hanno nascoste in sé, sono mazzate terribili e pericolose ai fini del morale ma aiutano a venir fuori dai momenti difficili più di quanto non si creda, per ricordarsi sempre che non bisogna mai dimenticare di essere in campo anche per rappresentare un popolo attraverso il proprio nome e i propri colori, e anche soltanto per questo motivo varrebbe la pena di impegnarsi fino allo stremo delle forze.
Ecco il video relativo alla sciagurata gara degli azzurri contro la Roma nel lontano 1959: