Ci sono poche regole nel mondo di Emanuele Giaccherini. La prima è sorridere, sempre. La seconda viene praticamente da sé: non arrendersi, mai. Neanche se davanti hai il mostro che t’inquinava i sogni da bambino, nemmeno se quel difensore è così grosso che l’avresti visto decisamente meglio sul campo da football, altro che calcio.
È che ormai è una vita che glielo dicono: troppo piccolo, troppo discontinuo, troppo anarchico. Troppo scarso, pure. Perché poi i ‘forti’ impazzano, vero? Fortuna che resta un’altra regola, tanto banale quanto fondamentale: lavorare, lavorare intensamente. E metterci cuore, anima, testa.
Questa gliel’ha inculcata suo padre, operaio. Avrebbe percorso esattamente le sue orme se solo il Cesena non si fosse invaghito di lui, dopo che Emanuele vi si presentò di sua spontanea volontà.
A quel provino andò con la sua macchina: il cambio della sua Fiesta era da buttare, lui solo da consacrare. Perché se c’è una cosa che non bisogna fare con Emanuele è questa: non sottovalutarlo. Mai. Primo perché non lo merita il giocatore: forte, fortissimo. Enorme nella doppia fase, d’una qualità seconda a pochi. E poi generoso come nessuno, come se il suo calcio fosse uno di quelli in continua transizione. Davanti e indietro, a mo’ di baskettaro: ci sarà tempo per riposarsi quando il rettangolo verde non farà più parte della sua vita.
Nel frattempo, lui corre. E non solo: dribbla, gioca, allarga, insegna. Insegna? Sì, eccome. Insegna come andare avanti anche quando il mondo ti vuole accantonare in un angolo.
Fu la Juve a dargli tutto: trofei, visibilità, dimensione calcistica. E lui diede tutto alla Juve, con quel gol al Catania che ancora oggi i tifosi bianconeri ricordano con amore. Portò loro uno scudetto che a riguardarlo oggi sembra facile facile, adesso chissà che al Napoli non possa ripetere le stesse orme. Del resto, è l’uomo giusto per le imprese: la prima l’ha vissuta sulla sua pelle. Da Bellaria al Mondiale, da essere l’ultima scelta del Cesena all’inamovibile titolarità in maglia azzurra. Sempre con le stesse regole: sorriso, coraggio, da sorpresa meravigliosa.
Per Conte non lo è stato, neanche per un istante. Lui ci ha creduto prima di tutti: in bianconero e poi in Nazionale. “Se solo si fosse chiamato Giaccherinho…”, tuonò in conferenza. Ora, quasi per rendergli merito, lo chiamano tutti così: lui ne ride, un po’ soddisfatto, di sicuro felice. No, non si chiama Giaccherinho: lui è Emanuele Giaccherini. E potrà portare qualità, quantità e buona esperienza. Anche, soprattutto in termini di vittorie. Perché è uno che sa vincere, e tanto. Del resto, servivano veri uomini a questo Napoli: Giuntoli ne sta per prendere uno, tra i più brillanti, tra i più completi.
Non sottovalutate Emanuele Giaccherini. Nemmeno per un secondo. Perché lui non l’ha mai fatto con se stesso, neanche quando il mondo gli stava per cadere addosso. “Magari faccio l’operaio, magari torno in fabbrica”, si disse un giorno. Poi la storia la conoscete bene. È una di quelle che non s’insegna tra i banchi di storia: è una di quelle che bisogna viverle. Sulla pelle, col cuore in mano ed un sogno nel taschino. Tra un po’, anche per Giack, tinto tutto d’azzurro.
Cristiano Corbo