L’aveva detto ai tifosi, nel suo stile pragmatico e genuino: “Faremo senza”. L’ha ribadito senza fronzoli ai taccuini del Corriere dello Sport. Maurizio Sarri e Gonzalo Higuain, un legame spezzato sulla via di Dimaro, parte seconda, lì dove solo un anno fa si posero le basi per la rinascita del delantero dal sorriso spento da troppe battaglie sfumate sul più bello. “Mi risulta difficile soffermarmi su di lui che ho appena visto con indosso la maglia della Juventus. Ne parlo, ma non volentieri. La scelta è stata sua perché l’offerta che gli è stata fatta da noi era in linea con ciò che poi gli è stato concesso altrove. È chiaro che perdiamo un giocatore determinante, il più forte centravanti al mondo ma dal punto di vista personale resta l’amarezza: perché mi aspettavo che facesse almeno una telefonata, magari cinque minuti prima che facesse le visite mediche. Sono abbastanza vecchio, però, per non meravigliarmi”.
Punto e a capo. Un legame coltivato, tra l’immancabile schiettezza e quel modus agendi da padre putativo che ha titillato tutte le corde, quelle giuste, dell’attaccante argentino. Confezionando la stagione dei record. Irripetibile, l’Higuain disegnato, ricostruito nelle gambe e nella testa, nel cuore soprattutto, da Sarri. Il centravanti migliore al mondo, lui, lui no, non la rimangia la parola data. Perché dovrebbe, del resto se il Pipita ha ottenuto sul campo le stimmate dell’acquisto più costoso della Serie A, terzo di sempre nella storia del calcio, tanto del merito sta nel lavoro del tecnico tosco-partenopeo. Dai primi fuochi contro la Sampdoria all’esplosione di classe e talento bagnata dal diluvio al San Paolo contro il Frosinone. Un mosaico prezioso, 36 gemme in campionato, tanti saluti a Nordahl e al suo record mai scalfito fino ad allora, 38 totali, figli delle doti di Higuain, vero, ma anche di un sistema di gioco disegnato su misura per esaltare capillarmente ogni prerogativa dell’ex Real Madrid. Tutto nel cassetto, tutto spazzato via. Il calcio, soprattutto quello moderno, è anche questo. L’obbligo è andare avanti, un ulteriore stimolo per chi la panchina azzurra l’ha guadagnata sul campo. Per chi, da quella sera di metà maggio, non sogna altro. Notti magiche, con il catino di Fuorigrotta come cornice ed il palcoscenico della Champions a esaltare. E far battere il cuore. Orgoglio, anche quello, che da silente diviene assordante: “Se invidio quella squadra ad Allegri? L’invidia è un sentimento poco nobile, non mi appartiene. Sono contento di essere qui e del mio percorso compiuto per arrivarci. Faccio il lavoro che voglio con la squadra per la quale ho sempre tifato, quello da invidiare sono io. E poi il bianco e il nero non sono colori che mi si addicono. Il 2 aprile avranno una partita proibitiva al San Paolo”.
E ora… Spazio alla controffensiva, di certo non può attendere. Il percorso è tracciato, ne va di un’onta da cancellare in tempo zero. Nessun bivio per la dirigenza azzurra, una retta da proseguire con continuità. Higuain alla Juventus è più di un colpo al basso ventre, attendere oltre pregiudicherebbe un rapporto con la piazza che definire in bilico porrebbe in imbarazzo qualunque eufemismo. Arkadiusz Milik il primo squillo, prima che i corni da guerra comincino a risuonare. La preda è ormai designata, il gradimento reciproco, tutto vira in direzione Milano. Mauro Icardi è il nome giusto per corroborare entusiasmi e voglia di ripartire. De Laurentiis ne è consapevole e non lascerà nulla d’intentato. Il muro del duo Thohir-Suning è issato, ma qualche crepa comincia a delinearsi, sotto le spinte non solo dell’argentino ma, anche, esterne. Mancini sempre più distante dalla panchina nerazzurra. Perseverare, ora e sempre. L’imperativo per un obiettivo dal quale è impossibile prescindere. Sarri, sempre lui, al momento punta a coccolare Gabbiadini e “non firma per un bel niente”. Tutto da giocare, si riparte da zero. Poi, con un killer d’area come Maurito e le doti di Milik…
Edoardo Brancaccio