Storia di una coreografia mozzafiato

Fratelli d’Italia. Magari fosse vero. In un perfetto universo parallelo forse lo è, forse siamo davvero tutti fratelli. Qui, in quest’Italia, il primo marzo 2017, non lo siamo. O forse sì. Fratelli serpenti, parenti e coltelli. La versione contemporanea di Caino e Abele. C’è odio. Tanto, troppo. Impossibile far la morale, impossibile anche tentare di riappacificare un Paese che è frammentato alla sua base, in virtù del conflitto perenne tra Nord e Sud. È nello specifico un odio che, addentratosi nella frangia meno tollerante e istruita del Belpaese, viene scaraventato nei confronti di Napoli e dei propri cittadini. E, soprattutto, dei tifosi della squadra di calcio della città.

Nel calcio l’odio è radicato, è un elemento quasi indispensabile al tifoso medio per mostrare la propria presunta superiorità. Specialmente nel mondo del web, che permette a chiunque di insultare – scendendo nel personale – un perfetto sconosciuto senza preoccuparsi delle conseguenze, forte di uno schermo a far da filtro. Non si tratta di fare vittimismo, semplicemente di parlare della verità. D’altronde il bruto sa come ribaltare la realtà a suo vantaggio con la forza della propria ignoranza. Signori, c’è un errore: non sono i napoletani i vittimisti. Non sono i colerosi ad essersi auto-affibbiati tale appellativo disgustoso, né tanto meno l’invito a ricevere un bagno di lava. Probabilmente in pochi realizzano le conseguenze catastrofiche che produrrebbe una tale calamità. Esulterebbero davvero, i “civilizzati”, in quel caso? La pochissima fede che conserviamo e riponiamo negli esseri umani ci porta a dire di no. Un’altra parte, invece, afferma il contrario.

La storia della coreografia in Napoli-Juventus va raccontata per questioni deontologiche. È un dovere morale ricordare quelle immagini. A maggior ragione oggi, dopo i cori sul Vesuvio che si sono sprecati ancora una volta allo J-Stadium. Non abbiamo più voglia o intenzione di dire basta: semplicemente scrolliamo le spalle e andiamo avanti. Vivi e lascia vivere. Perché dopo quella coreografia datata quattro anni fa i cori che invogliano il Vesuvio a “fare il proprio dovere” hanno assunto un significato infimo alle orecchie dei napoletani: valenza uguale a zero.

Il 1 marzo 2013 Napoli-Juventus rappresentava il match clou della 27esima giornata. L’anticipo del venerdì metteva contro la capolista bianconera e la diretta inseguitrice, il Napoli. Sul campo il match sarebbe terminato 1-1, sugli spalti i tifosi azzurri avrebbero vinto con un margine nettissimo. In quel periodo “Lavali col fuoco” aveva rimpiazzato l’inno di Mameli nell’immaginario nazionale. In ogni impianto, anche quelli di provincia, gli stadi di squadre con cui il Napoli non aveva alcuna rivalità, rimbombava il chiasso assordante di quel coro. Sì, era una costante in giro per l’Italia, il Paese spaccato di cui sopra. 

Vinsero i tifosi del Napoli, quel 1 marzo 2013. Con una coreografia talmente bella e significativa da mozzare il fiato: la rappresentazione di un Vesuvio eruttante, il simbolo di un’appartenenza e di un legame indissolubile con la propria terra. E allora sì, lavaci Vesuvio: a noi non importerebbe, t’ameremmo lo stesso. Fu un grido, quella coreografia, una reazione da applausi e da lacrime di commozione. I colerosi, i selvaggi, risposero per una notte con la sola forza delle immagini. Immagini che spingono a riflettere, che a distanza di quattro anni ancora pietrificano e lasciano senza fiato l’osservatore. Sia per la bellezza esteriore, che per quella intrinseca. Il significato. Quella notte, probabilmente, migliaia di napoletani hanno sperimentato la fierezza di appartenere a tale popolo. Testa alta, petto in fuori, con la fedeltà di sempre e il coraggio di urlarlo ovunque in giro per l’Italia: “Sì, sono napoletano”. 

Quattro anni dopo non è cambiato nulla, ma al tempo stesso è mutato tutto. Perché i cori beceri ancora si sprecano in questo Paese così lacerato dall’odio. Ma ormai non hanno più senso, è solo rumore che giunge alle orecchie privo di significato. Quasi non s’avvertono più: quella coreografia li mise a tacere per sempre.

Vittorio Perrone
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