Il livornese e l’aretino. Il fantasista e il bancario. Estro contro concretezza. Malgrado la provenienza geografica, un percorso e una dicotomia ben delineata. Difficile prevedere improvvisi rovesci. All’inizio degli anni ’90 le carriere di Massimiliano Allegri e Maurizio Sarri sono l’emblema di due precise personalità. Nessuno dei due, però, è consapevole della metamorfosi alla quale andranno incontro negli anni successivi. Entrambi seduti in panchina, con un pedigree completamente diverso e l’inclinazione a sovvertire la propria indole. Arrivando a dividere le piazze e gli addetti ai lavori con la loro diversa filosofia di calcio.
L’attuale tecnico della Juventus, nella sua prima vita da calciatore, era un classico numero 10 di fine millennio. Dettava i tempi con movenze sinuose, con la sensazione che potesse in qualsiasi momento tirar fuori il coniglio dal cilindro. A Cagliari, Pescara e Perugia ricordano perfettamente i suoi missili dalla distanza e le sue capacità tecniche superiori alla media. Da allenatore pare intatto l’intento di perseguire un calcio offensivo ed effervescente. Straordinaria la promozione in B con il Sassuolo, nonché degne di nota le stagioni a Cagliari, con piazzamenti mai più riusciti ai sardi da allora. Ma la visione di gioco che lo caratterizzava in campo si è nel frattempo tramutata in abilità nella lettura delle gare. Un aspetto che poi, trasferitosi in top club come Milan e Juventus, diviene improvvisamente prevalente.
A Torino nel post-Conte si definisce subito un “evoluzionista” e non conservatore: stessi schemi, diversa applicazione. “Vincere è l’unica cosa che conta” è il motto della società bianconera. E la sua componente estetica viene pian piano accantonata in nome di questa nuova mentalità pragmatica. Non offre spettacolo, spesso non è bello da vedere. Non ha un’identità precisa ma si ridisegna sulle abitudini dell’avversario. Un atteggiamento machiavellico che sa quasi di provinciale. In tanti lo contestano, ritenendolo non adatto al salto di qualità europeo. Lui, dal canto suo, elenca i suoi successi: due scudetti, due Coppe Italia, una Supercoppa ed una finale di Champions. Un’aggiunta in bacheca invece di fossilizzarsi sull’estasi del momento. Lo chiamano aziendalista, ma è certamente complicato dargli torto.
L’allenatore azzurro, invece, ha disegnato traiettorie in un certo qual modo opposte. Nel ’99 lascia l’acclamato “posto fisso” per vestire esclusivamente la tuta da mister. Una gavetta pazzesca partita da Stia in seconda categoria e giunta, quest’anno, al Santiago Bernabeu con il suo Napoli. Sin dagli esordi, basta rovistare tra le testimonianze dei suoi calciatori di allora, si dimostra un autentico maniaco dei particolari nella preparazione settimanale della gara. Studia ogni singolo dettaglio come faceva prima di concedere un mutuo nella sua Banca Toscana ad una coppia di sposini. L’amore per le statistiche lo divora, così come la cura spasmodica per i movimenti della sua linea difensiva. I suoi droni infatti, prima ad Empoli e poi a Napoli, hanno suscitato l’ilarità di chiunque lo seguisse da vicino.
Durante il suo cammino, tuttavia, ha sempre inseguito una sua fisionomia di gioco: fraseggi stretti, lungo possesso palla, triangoli e repentini cambi di ritmo. Quest’idea di calcio ha probabilmente raggiunto l’apoteosi in quel di Partenope, aiutato ovviamente da una rosa superiore a quelle gestite in passato. La bellezza prodotta e gli apprezzamenti ricevuti hanno però contribuito allo smarrimento di alcuni dei suoi assiomi, tra cui la solidità difensiva. Reina al momento è stato bucato più volte dell’intera stagione passata, con otto giornate ancora da giocare. Le gare dominate in lungo e in largo, il record di gol segnati e le gratificazioni ottenute in Champions non generano automaticamente trofei. Da qui il dibattito sull’utilità di uno stile spumeggiante se lo stesso non risulta vincente. Con l’ombra di un’annata fallimentare nel caso stasera non riuscisse la remuntada alla Vecchia Signora e la Lazio soffiasse il terzo posto. Un paradosso, ad onore del vero, dopo tanti inchini.
Tante le chiacchiere dopo l’1-1 di domenica sera. C’è chi parteggia per la gioia degli occhi e chi preferisce il calcolo freddo e razionale. Finora una Juventus mai imponente, a volte addirittura imbambolata, non ha mai perso nei tre scontri contro gli azzurri. Tra poche ore la resa dei conti. Il Napoli cattivo, così come lo vorrebbe Sarri, è l’unica arma capace di trasformare un carro di Carnevale in una vera e propria macchina da guerra. Dall’altra parte però, laddove i match dentro-fuori sono pane quotidiano, nessuno ha intenzione di mollare. Con un atteggiamento verosimilmente diverso da quello di tre giorni fa. Scorrerà tutto sul filo dei nervi. Respiro profondo. Nuova immersione in una storica rivalità. Estro contro concretezza. Quarta puntata.
Ivan De Vita
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