La vista da Palazzo Donn’Anna mozza il fiato, prendi una boccata d’aria e respiri vita. Ciro Dries Mertens lo sa bene perché lì, in quello scorcio di paradiso, ormai ci abita da tempo. Non immaginiamo quanta carica quel terrazzino a strapiombo sul mare possa dare prima di una partita, quanta quiete dopo. Raccontare Dries Mertens è anche capirne le abitudini, la simbiosi perfetta con una città che non vorrebbe lasciare. No, non ancora, non prima di un ultimo tuffo.
L’hanno beccato nella movida del centro storico, con la visiera del cappello abbassato. Clark Kent, più che Superman. Superman lo è diventato quando, svestiti i completini azzurri e il 14, è stato intravisto alla Stazione di Napoli. Le pizze tra le mani, i senzatetto più sfortunati ad accogliere quel gesto d’amore disinteressato. È lui o no? È Mertens, il campione plurimilionario, questo ragazzo che distribuisce pizze agli affamati? Sì, è lui. Nessuno l’avrebbe saputo nel silenzio della notte: l’intenzione di farsi pubblicità non gli è mai passata per la testa. L’advertising se l’è concesso diversamente, in quel rettangolo verde di felicità. Sul prato Dries salta, danza, volteggia, si libra.
Il prato sembra una pista da ballo, altre volte da pattinaggio artistico. Sorprende sempre la leggerezza con cui si muove, si sposta da un fronte all’altro, attacca la profondità o se ne va in slalom. Il destro è un po’ cannone e un po’ colpo da biliardo: la palla in buca è finita 121 volte. Nessuno come lui, in azzurro, neppure il più grande. A calcio Ciro Dries gioca come un bambino, come in strada a dieci anni, come quando il proprietario del pallone decideva le squadre e la partita finiva solo al calar del sole. Il sorriso, nei 90′, lo abbandona raramente. I balletti, le esultanze, le linguacce, le risate. E i goal. E che goal. Di destro, di sinistro, di forza, a giro, goal chirurgici e goal fortunosi, da centravanti puro e da fantasista. E capolavori veri e propri, da strofinarsi gli occhi e ringraziare ogni giorno di amare il calcio-
Chiedere conferme a Chiriches e alla sua espressione loquace dopo quel pallonetto assurdo al Torino: “Mamma mia”, con contorno di applausi. Dries Mertens incarna quei momenti poetici che nel calcio tanto piacevano a Pasolini. Ma non è stata solo rose e fiori, un’avventura azzurra durata quasi 6 anni: due trofei, sì, ma uno scudetto perso quasi sul traguardo. È stato due anni fa, quando il Torino inchiodava il Napoli sul 2-2 nella penultima al San Paolo, il suo compleanno più triste. Ma Fuorigrotta cantò lo stesso, lacrime agli occhi. E lui con loro, in simbiosi. Oggi sono 33 candeline, non è più un ragazzino ma la sensazione è che abbia ancora tanto da dire e fare.
In azzurro, sperano tutti. In tempi di Netflix e quarantena, sorprende la serie The Last Dance, il documentario sull’ultimo anno dei Chicago Bulls di Jordan, Pippen, Rodman e Jackson. Una dinastia leggendaria. Con legittime proporzioni, quella di Mertens passerà alla storia del Napoli. Basta un dialogo, venirsi incontro, una firma, per regalare una Last Dance a chi davvero la merita. E poi salutarsi per davvero, con un giro di campo, una cerimonia e la promessa di rivedersi, un giorno, in futuro, in altre vesti. Certi legami, d’altronde, non li sciogli.
Vittorio Perrone