“Eppure sembra ieri, che i leoni ce se magnavano al colosseo.” Così, nel film In nome del papa re, monsignor Colombo da Priverno, interpretato da Nino Manfredi, rimprovera ai suoi venerandi pari, la scarsa pietà del tribunale penale del potere temporale, prima che venga emessa l’ultima sentenza di condanna di morte all’indomani della presa di Portapia e del tanto o poco, fate voi, discusso Risorgimento. Adesso, parafrasando la maliziosa e tagliente battuta di Manfredi, potremmo dirci che pare ieri che l’imperatore sospendeva i giochi nell’anfiteatro pompeiano, per punire i tafferugli avvenuti tra locali e nocerini. Storie sepolte dalla polvere dei secoli e dei millenni, ma la storia sa compiere tutte le manovre e, di tanto in tanto, non disdegna di innestare la retromarcia e correre indietro, ora con cautela per parcheggiarsi quieta e ordinata lungo la strada, senza creare scompiglio, adesso schizzando libera e incosciente all’impazzata, senza freni verso nessuno sa quali fermate.
Il calcio, che per le sue frivole e drammatiche vicende un po’ assomiglia al lamento capriccioso dell’uomo in gratuita pena di sé, non si sottrae alla malizia della stessa battuta, ridicolizzando i suoi adepti, più che se stesso. È frequente che la massa s’inviperisca se di fronte all’occasione di esercitare l’astio maturato all’ombra di competizioni lontane dalla disputa sportiva. Da un secolo il calcio fa da paravento alle istanze popolari e ai rifiuti del potere. Un mondiale, un campionato o una sola partita possono detonare il grido liberatorio di una fazione indispettita dal logorio dell’ingiustizia. Cosa unirvi, cosa giustifichi o meno la rivalsa è nelle more del libero arbitrio, che qui neanche lontanamente sarà minato nelle sue buie fondamenta.
Accade però spesso che quelle microscopiche riproduzioni popolari, le tifoserie, smarriscano con ridicolo luoghi e misure, mescolando ai riflettori dei novanta minuti i confini del tempo, delle lotte ancestrali, delle nobili imprese, con l’effimera soddisfazione di un momento. Si mescolano, così, pure le stragi e i delitti con le offese più volgari. Se per un istante la storia discende, che solo di rado si avvolge nel manto dell’umiltà, ad assentire che una passione sportiva diventi sentimento popolare, nello stesso istante la tavola che essa porta sotto il braccio si frantuma. E nessuno può leggervi quello che c’è scritto.
Se uno stadio ricolmo è l’unica occasione per alzare uno striscione e offendere l’avversario oltre la misura della competizione, allora vuol dire che quello è l’unico modo disponibile e che nient’altre fierezze usciranno dalla sua voce e nessuna idea migliore di quella li unirà al loro manipolo di umanità marginali. Viceversa, se l’offesa ricevuta deriva dalla storia che invece di discendere se ne sta lassù, ghignante e curiosa, allora non è più lo stadio il luogo per iniziare a pensare a come un senso di giustizia possa essere in qualche modo percepito.
Il controllo mediatico, la politica, l’economia, e tutti gli altri disastri, quelli bisbigliano frasi ingiuriose e proclami d’invasione ogni giorno, facendo sì che il maltrattamento passi sotto il nome di vittimismo, adombrando i meriti e i demeriti, farcendo la realtà di odori e profumi narcotizzanti. Ma pure i popoli offesi sono caduti nella trappola, e allora da un pezzo si sono allineati alla regola dello sfogo e del pretesto sportivo, abbandonando pure la vittoria, e scambiando la rivalsa per un’occasione domenicale. La liberazione, invece, è una conquista, che a volte nella storia ha bisogno di essere compresa e riesercitata più volte per far sì che l’alieno, sia esso invasore, dominatore o semplice convivente sgradito, capisca che per lui pochi posti sono rimasti nell’ampio ma accorto e silenzioso foro delle umanità dignitose.
Purtroppo i popoli offesi, parlo di quelli violati ma comunque privilegiati, i popoli offesi, dicevo, hanno smesso di fare quello che fino al tempo dell’offesa sapevano fare, smettendo l’abito semplice ed elegante, abbandonando i ferri del mestiere e, lasciandosi sopraffare dalla disperazione, si sono dati all’occasione domenicale, ai margini indegni e grotteschi di ridicoli virtuosismi, per quei posti occupati da chi altro non seppe e non saprà fare, per destino votato a penose e anonime fierezze. Scrisse Nietzsche: “Ci sono pavoni che nascondono la loro coda davanti a tutti; e questo lo chiamano fierezza.”
La rabbia e la rivoluzione sono nella settimana, nella quotidiana lotta dell’appartenenza se proprio s’avverte la necessità di ribadirla, e ben altri campi di battaglia reclamano lo sdegno e la contestazione. Lasciamo che la domenica gioisca per noi, e che le esistenze marginali ne facciano un uso “fiero” e ridicolo, perché va così, quando, prima o poi, l’onda del ridicolo sta per giungere, silenziosa e spietata, l’uscita di sicurezza si trova sempre dal lato opposto.
sebastiano di paolo, alias elio goka