Il sole era una scaglia d’arancia, sul terrazzo bruciavano i fiori e le erbe rampicanti sembravano assetate; la leggera altura accoglieva nel grembo una frescura che suonava come una preghiera esaudita.
Cosa dovevo domandargli adesso? Iniziare un qualcosa ha sempre l’aspetto dell’Inferno. Ritagliare delle domande è selezionare, selezionare significa scartare, scartare significa perdere irrevocabilmente.
Ma abitanti di un mondo dove l’oggettività e la sicurezza hann tradito anche le scienze esatte come la matematica e la fisica, mi dico che camperò lo stessso, che le domande sono le mie e le risposte le sue, che un’intervista è un dialogo nel quale l’intervistatore deve seguire il tracciato che le risposte dell’intervistato gli suggeriscono.
A me non rimarrà che seguire la scia dei suoi pensieri, dei suoi sguardi che rivelano, che confessano quello che il cuore non sa o non vuole dire.
Appare in t-shirt, lo vedo avanzare timido nella luce fresca e malinconica di un pomeriggio che muore. Alza la mano e mi saluta, ha quasi vergogna, abbassa e alza gli occhi senza sapere dove farli riposare. Si accarezza il braccio nervosamente;capisco che non gli piacciono le domande, che preferisce non mostrarsi nudo..intuisco un senso di libertà profanata, di intimità svelata..questo mi crea disagio.
“Ciao”. Un Ciao rapido, di regolamento, di educazione. Si siede sul divano, giusto di fronte a me. Intanto la cameriera adagia sul tavolino di vetro due bibite rosse con ghiaccio, non so cosa siano, nè voglio immaginarmi il sapore. Non esiste più nulla per me se non quel volto che sembra sospeso, tormentato.
C’è una fase di imbarazzo, come accade a due sconosciuti costretti, loro malgrado, a condividere del tempo insieme. La situazione si fa soffocante e decido di cominciare, così, all’improvviso, senza pensarci, perché pensare in questi casi rischia di prolungare all’infinito le mille domande che la sospensione nutre.
” Pocho, ma è vero?” “Cosa?”- risponde lui come trafitto, come se lo avessi sorpreso su un pensiero già formulato.
“Che vai via?“.
La voce che codifica la domanda, cioè la mia, mi soprende, mi spaventa. E’ tremante, insicura, pietosa, invocante. Credo che il Pocho si sia accorto di ciò, perché è sensibile, perché sa essere acuto pur mantenendo il suo velo d’innocenza.
“Andare via? Non so, prima si deve finire la stagione. C’è Siena, la Coppa Italia, poi si discuterà. Io a Napoli mi trovo bene”.
La sua risposta formale non giunge inattesa, me l’aspettavo.Cosa può dire un giocatore quando la stagione ancora deve terminare? Ma io non cercavo la risposta nella parola, un giornalista questo non lo deve fare, sprecherebbe tempo, e non farebbe bene il suo lavoro che è quello di decifrare, di tradurre, di codificare sguardi e respiri, intonazioni, occhi che sfuggono.
Il suo “A Napoli mi trovo bene” mi fa male, intuisco dietro quella frase di riconoscimento un tempo presente usato con la consapevolezza di un passato.
Voleva dire, a se stesso, tra 10 anni, ricordandosi di questo pomeriggio, “Come stavo bene allora.”
“Pocho sei soddisfatto di te stesso? Ti senti felice in questa città?” Ezequiel ha un sobbalzo, si tortura le mani e le braccia, con un sorriso bugiardo mi dice: “Claro che sì! Non vedi il mare da qui?Non senti la gente che mi chiama? Non sai che io popolo il sonno dei fanciulli che si addormentano?
“Sicuro Ezequiel? non ti senti stanco? La gioventù non ha forse bisogno di climi sempre nuovi, di esperienze che allarghino l’anima? Non è vero che anche il più grande amore con il tempo si spossa,si stanca, si sfinisce come un rivolo inghiottito dalla sabbia della monotonia, anche se quella monotonia è magica?”.
Il mio vuole essere un affondo, gli voglio consegnare la risposta, lo voglio aiutare ad essere sincero; così entro nel suo pensiero, mi faccio Lui, lo seguo, lo bracco. E’ un ragazzo semplice, non crederà alla mia astuzia. E questo mi dispiace, mi sento un pò ignobile, mi dico che sto giocando ad armi impari, che Ezequiel ha il diritto di mentire, finanche a se stesso, figuriamoci a un semplice giornalista. Ma ormai so che la sua prossima risposta sarà quella autentica, quella vera.
Mi sorride come per ringraziarmi, come se lo avessi aiutato a espiare una condanna
. Ora mi guarda fisso, è fermo, serio,i suoi occhi vispi sembrano tramontare come il cielo. Prende il suo bicchiere rosso, mi porge l’altro, beve un sorso e mi dice
“La giovinezza corre, si consuma. Perché gli uomini non credono che un cuore può ospitare più di una tenerezza? Povero è quel cuore che ama solo una volta. Io amo Napoli e la amerò per sempre..ma amo anche me stesso, amo la mia libertà, anche la libertà di essere anonimo mentre prendo un caffè. Sono un pò stanco dello stesso mare, dello stesso campo di allenamento, dello stesso tragitto. L’anima mia non si accende più, non è più curiosa, mi sento come un fiammifero che si spegne..e il soffio dell’entusiamo della gente non fa che soffiare su quel cerino. Sì, per gli sprovveduti può sembrare che la fiamma si ravvivi,ma non sanno che la fine si avvicina….”
C’è un attimo di silenzio, ora non voglio più affondare, suggerire, sono certo che sarà lui ha raccontarmi il finale, ormai sa che gli sono amico, che lo comprendo. Infatti mi guarda come per dirmi “Ti voglio bene”- ma in me adesso lui vede i sessantamila del S.Paolo, vede i ragazzi che nei cortili giocano a imitarlo.
“Andrò via”
“Lo so”, gli rispondo guardandolo con comprensione e amore “Lo so”, gli ripeto. Non ci diciamo più niente, si alza, mi invita a fare altrettanto, mi precede alla finestra, la apre, guarda fuori, nel niente e nell’immensità del mare “ Se potessimo dimenticare, se fossimo così immensi da sopportare ogni dolore. Lui -indica il mare-, lui sa ciò che sento, mi è stato vicino mentre gli altri dormivano. Lui è Napoli, ed è ovunque
Carlo Lettera
Riproduzione riservata