Schegge di memoria: Attila Sallustro

Attila Sallustro è considerato il primo amore dagli sportivi partenopei, l’uomo che rifletteva l’emblema dell’eleganza e della bellezza mascolina. Ben presto divenne l’esempio da seguire per gli uomini e “l’uomo impossibile” per le donne. Le persone in là con l’età lo ritraggono di certo come il campione che ha inaugurato la gloriosa maglia azzurra negli anni della nascita. Dalla fusione tra l‘Internazionale dell’inglese William Poths e il più indicativo Naples Football nacque dapprima l’Internaples, ribattezzata il primo Agosto 1926 in Calcio Napoli. Il presidentissimo Ascarelli inaugurò la società non al meglio delle aspettative, mettendo in piedi una squadra non all’altezza, dove però compiva i primi passi il giovane paraguaiano, nato ad Asuncion nel 1908 da genitori napoletani che rientrarono in patria quando Attila aveva 12 anni. L’anno fu funesto, si chiuse con un mortificante 1 in classifica (0-0 col Brescia) che sancì l’abbandono del simbolo del cavallo, troppo stoico per le sorti disgraziate di quella società nata sotto una cattiva stella, si preferì quindi adottare il più adatto ciuccio, simbolo della sofferenza e del duro lavoro da portare avanti per cavar fuori un ragno dal buco.

Il nuovo simbolo sembra portar bene, tant’è che i campionati successivi vedranno gli azzurri andare sempre a migliorare, sino ad arrivare a conquistare il quinto posto nel campionato, alle spalle delle potenze del nord. Sallustro raggiunse anche la sua prima chiamata in nazionale (era naturalizzato italiano per via dei suoi genitori) dove debuttò segnando un gol nella sfida Italia-Portogallo 6-1. Purtroppo non sarà più considerato dal ct se non per un’altra apparizione nel Marzo successivo, poiché gli fu preferito Giuseppe Meazza, da lì a qualche anno campione del mondo per ben due volte. Si narra di una sommossa napoletana che, in spedizione “punitiva”, raggiunse Roma per assistere alla gara contro la Svizzera, per fischiare il giocatore interista. Ciò scatenò la rabbia della madre di Meazza che pare abbia preso ad ombrellate più di un tifoso azzurro. Detto “veltro” (scaltro) raggiunse l’apice della sua carriera nel campionato del ’30, quando, nella gara Napoli- Ambrosiana, mise a segno due gol storici (risultato finale 3-1) e venne portato in trionfo dalla platea azzurra, giunta allo stadio “Ascarelli“, gioiello da 35.000 posti, per sostenere la causa azzurra in una delle annate più emozionanti del primo decennio partenopeo. La leggenda vuole che il giocatore arrivò nella sua abitazione spogliato  dalla folla festante da ogni indumento, quasi come un santo idolatrato, che cammina per le vie della città distribuendo benedizioni, proteggendo i fedeli dalle tirannie altrui.

Alla fine della sua carriera azzurra, Sallustro collezionerà 269 presenze coronate da 107 gol e rimarrà il primo, vero eroe della causa partenopea. Un altro aneddoto vede il padre di Attila contrario al pagamento di uno stipendio per tirar calci ad un pallone, considerando disdicevole che prendesse soldi per fare un’attività sportiva, Gli impose, così, di giocare gratis: l’attaccante cominciò a ricevere uno stipendio solo nel 1932 quando, passato professionista, riceveva 900 lire al mese di stipendio (salito poi a 3.000 lire negli anni in cui fu capitano). La fama raggiunse livelli tali che in quegli anni ricevette in regalo una Balilla 521 dal presidente Ascarelli: con la stessa investì un passante che, riconoscendolo, gli disse: «Scusate tanto, è colpa mia. Voi potete fare tutto quello che volete…».

L’amore e la passione della gente era palpabile quando il giocatore andava a teatro per ammirare la sua futura moglie Lucy D’Albert, di professione soubrette. Molti diranno poi che fosse una delle principali cause del declino del giocatore, considerato un campione dal fisico fragile e cagionevole. Le sue entrate in sala erano spesso accompagnate da applausi e “pause di scena” dove gli spettatori potevano adulare il proprio campione. A fine carriera, dopo qualche decennio, gli fu affidata la direzione dello stadio San Paolo, seguita da alcune apparizioni in panchina a fare il salvator della patria, sempre in situazioni critiche, onorando sempre il ruolo grazie alla sua classe e alla competenza mai in discussione. Trasferitosi a Roma, morirà nel 1983 all’eta di 75 anni. Un grande personaggio, un giocatore dalla tecnica sopraffine, ha forse raccolto meno di quanto meritasse. Nonostante ciò resta il mito di un uomo destinato ad aprire il ciclo dei campioni sudamericani a Napoli. 

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