Poi, il campo di sterminio, e di lui più nulla si seppe. La formula del dissolvimento forzato. Nessuno sa quanti siano stati gli uomini destinati a svanire, andando incontro a quel bivio che il dito caotico e maligno della sorte spinge verso due opportunità. Finire come e laddove nessuno sa e saprà mai, oppure sparire dopo aver lasciato traccia e, in qualche modo, continuare a vivere per sempre. L’amarezza di un’immortalità non goduta. Come se una pigra divinità s’impadronisse delle sue spoglie mortali, vagando indisturbata tra i fortuiti tentativi di riconoscerla. È l’epilogo di molti, è stato l’epilogo di molti, è stato l’epilogo di Arpad Weisz.
Di lui si sono occupati, a distanza di tanti anni, i più accorti e appassionati cronisti. Uno su tutti, lo Storico bolognese Matteo Marani, col suo libro “Dallo scudetto ad Auschwitz”, prodotto da Aliberti Editore, che ha condotto un’indagine giornalistica durata anni, per “dare corpo a un fantasma”, come ha scritto Gianni Mura recensendo la biografia frutto della scrupolosa inchiesta condotta da Marani.
Arpad Weisz nasce a Solt, in Ungheria, nel 1896. Figlio di due ebrei, inizia la carriera di calciatore, come ala sinistra, militando nel Toreksev, squadra ungherese, e nel Maccabi Brno, compagine cecoslovacca. Nel 1924, disputa le Olimpiadi con la nazionale del suo paese, e in attacco gioca in coppia con Ferenc Hirzer, soprannominato la Gazzella, attaccante che sarebbe poi stato il primo straniero ingaggiato dalla Juventus. Dopo una stagione con l’Alessandria, Arpad gioca a Milano, nell’Ambrosiana Inter, ma a causa di un infortunio interrompe la carriera di calciatore. Viaggia in America latina, tra Argentina e Uruguay, e gira mezza Europa, affinché migliorare le sue conoscenze tecniche sul gioco del calcio. È un ragazzo colto e intelligente, che interpreta il calcio come una disciplina di studio e di scientifica applicazione. Nel 1926 inizia la carriera di allenatore, prima in una breve esperienza con l’Alessandria e poi alla guida dell’Ambrosiana Inter, la squadra di cui aveva già indossato la maglia come calciatore. Nel 1930 vince lo scudetto, a soli 34 anni. A oggi, Weisz resta il più giovane allenatore ad aver vinto un campionato italiano.
Intanto in Italia le cose iniziano a cambiare. La W infastidisce le manie linguistiche del fascismo, e Arpad è costretto a “traslitterare” il suo cognome, che diventa Veisz. Operazione frequente in quegli anni, che cambiò il cognome a molti altri cittadini di origini esteuropee. Dopo aver allenato Bari e Novara, e poi di nuovo l’Ambrosiana, Weisz passa al Bologna, dove, tra il 1935 e il 1937, vince due scudetti di seguito, consolidando definitivamente la sua figura di allenatore preparato e carismatico. Nel 1937, il Bologna di Schiavio e Fedullo vince il Torneo dell’Esposizione Universale, l’odierna Champions League, battendo a Parigi, per 4 a 1, il Chelsea, squadra considerata maestra del calcio inglese.
Arpad Weisz, ispirandosi al sistema inventato da Herbert Chapman, è il primo allenatore italiano ad applicare un metodo scientifico al gioco del calcio. Arpad segue la squadra anche nella preparazione atletica, imponendo particolari esercizi e schierando gli undici in campo con tattiche e schemi completamente innovativi per il football italiano. Weisz, prima dell’avventura bolognese, aveva anche pubblicato un libro, “Manuale del giuoco del calcio”, scritto nel 1930 con Aldo Molinari, e integrato da una prefazione di Vittorio Pozzo, con cui aveva illustrato schemi e tecniche apprese durante i suoi anni di studio all’estero.
Nel 1938 in Italia vengono promulgate le leggi razziali e per quelli come Weisz, ebreo ungherese, la gran parte dell’Europa occidentale non è più un luogo sicuro. Il Bologna, in ossequio obbligato ai dettami del regime, nell’ottobre dello steso anno, lo licenzia, ingaggiando al suo posto l’austriaco Felsner. Lo stesso Bologna che lo aveva tanto voluto e amato, adesso è costretto a mandarlo via. E pensare che nei rossoblu milita Monzeglio, che pare abbia insegnato il tennis ai figli di Mussolini e che in quel Bologna gioca Fiorini, ucciso nel 1944 dai partigiani. La guerra e i suoi anticipi, che irrompono ovunque, e quando le cose vanno così, tutto finisce in una spietata consegna.
Arpad è costretto ad abbandonare l’Italia con la sua famiglia, rifugiandosi prima a Parigi e poi in Olanda, dove trova lavoro di allenatore nella città di Dordrecht, nella squadra di calcio locale. L’FC Dordrecht riscuote notevole successo, grazie alla guida tecnica di Weisz. Infatti, gli sconosciuti di una piccola cittadina olandese, riusciranno più volte a battere il grande Feyenoord, in quegli anni la compagine più rappresentativa del soccer olandese.
All’inizio degli anni ‘quaranta i nazisti stabiliscono che gli ebrei non possono più frequentare luoghi pubblici, stringendo con forza il giro di vite per la messa al bando dei cittadini di religione ebraica. Per la famiglia Weisz le cose si mettono male e Arpad riesce a sbarcare il lunario solo grazie agli aiuti finanziari che il presidente del Dordrecht, con l’appoggio della piccola comunità olandese, gli procura in gran segreto. Arpad Weisz e la sua famiglia sono in grande pericolo. Come temuto, nell’agosto del 1942 i Weisz vengono tratti in arresto dalla Gestapo. Anche il grande Weisz è caduto nella rete della persecuzione nazista. Colui che ha di fatto rivoluzionato il calcio italiano, che ha lanciato il talento del grande Giuseppe Meazza, facendolo allenare davanti a un muro per migliorargli il palleggio sia del piede destro che di quello sinistro, quell’allenatore così stimato dall’intero mondo del pallone, precipita nella prigionia.
Destinata al campo di Westerbork, lo stesso dove passerà anche Anna Frank, la famiglia Weisz vi resta per poco tempo. Arpad viene spedito al campo di Cosel, nella Slesia, mentre per il resto della famiglia la meta stabilita dalle SS è Zyklon B, di Auschwitz. Il 2 ottobre del 1942, a Zyklon B, che prende il nome di un gas letale, arrivano Elena, la moglie di Arpad Weisz, e i suoi due figli Clara e Roberto. Appena tre giorni dopo, tutti e tre vengono condotti alle camere a gas, dove muoiono senza che Arpad Weisz sappia più nulla di loro. Arpad, nel frattempo, essendo dotato di un fisico atletico e resistente, giunto anch’egli ad Auschwitz, viene impiegato nei lavori forzati. Non ha notizie della sua famiglia. Non sa se sua moglie e i suoi figli siano vivi o morti. Vive nel campo con altri ebrei, cristiani, testimoni di Geova, prigionieri sovietici, oppositori politici, pentecostali, Rom, omosessuali, portatori di handicap, malati di mente e tutti gli imprigionati dalla vile cattura nazista. Dove Arpad si trova vige l’ordine del disordine, e nessuna tattica vale a respingere le violazioni quotidiane.
La vita media di un prigioniero ad Auschwitz è all’incirca di 4 mesi. Arpad resiste per un anno e mezzo quasi. Alla fine di gennaio del 1944, Arpad Weisz viene trovato morto, consumato dagli stenti e dal gelo del lager.
Per quasi sessanta lunghi anni, di uno tra i più grandi allenatori di calcio mai esistiti non si parlerà più. Ormai dimenticato, il suo nome rivede la luce grazie all’indagine giornalistica di Matteo Marani e ad alcune recenti iniziative politiche a Bologna e a Milano.
Amara curiosità. A Bologna c’è un parco pubblico, tra via Fossolo e via Mainoldi. È dedicato ad Arpad Weisz. Molti cittadini lamentano il suo stato di degrado e abbandono, che nel tempo lo ha ridotto in condizioni pietose. Epilogo postumo della storia di Arpad Weisz, esempio lontano di quanto il mondo mai sia riuscito a tollerare le cose straordinarie. È forse questa la più estesa forma di intolleranza? Anche al di sopra delle dominazioni. In mezzo c’è Arpad.
sebastiano di paolo, alias elio goka
In immagine, foto di copertina del libro di Weisz Molinari